Ma io dico: benedetto sia il profitto

Da Vita non Profit Magazine n. 42, 18/24 ottobre 2008

Ma io dico: benedetto sia il profitto

Intervista a Giacomo B. Contri di Luca Ribolini

La grande sconfitta delle settimane nere e del crollo dell’economia è il panico. Perché paralizza il pensiero e quindi la capacità degli uomini di agire e quindi di produrre. La via di uscita è una sola: uscire dalla logica costi-benefici, uscire sempre allo scoperto. In Italia chi l’ha capito meglio degli altri sono gli immigrati

Giacomo B. Contri è psicoanalista e non economista. Ma è difficile sentirgli in bocca un ragionamento, di qualsiasi cosa si parli, psiche umana compresa, che non abbia un fondamento economico. Navigando tra le voci del suo frequentatissimo blog (una voce al giorno, una sorta di breviario contemporaneo...) troverete sempre nessi con l’attualità e lessico che si regge su metafore di stampo economico. Profitto, paga, investimento, soldi-talenti, guadagno, sono chiavi decisive per portare allo scoperto le dinamiche più vere e più sane delle persone. È anche per questo che Giacomo Contri ha seguito con apprensione l’ottobre nero della finanza mondiale. E la sua apprensione era legata soprattutto a un punto: che nella bufera e nella paura venisse gettato al vento un principio per lui di valore impagabile come quello del “profitto”. Una sorta di demonizzazione che ci farebbe davvero tutti più poveri, e non solo di soldi...

VITA: Fa specie che oggi tocchi a uno psicoanalista difendere il capitalismo.

Come se lo spiega?

GIACOMO B. CONTRI: In una recente, e citata dai giornali, disputa tra Tremonti e D’Alema, il secondo definiva il primo un vero marxista. D’Alema ha in quell’occasione ricordato che per Marx il capitale finanziario non produce ricchezza. È per questo che ciò che fa il capitalista collegando capitale e lavoro - con o senza lo sfruttamento della solita classe - è notevole: opera per produrre ricchezza. Per questo quasi tutto il mio pensiero è concentrato sul concetto di lavoro. Intendo il lavoro in ogni suo aspetto: do, infatti, al lavoro di pensiero un’importanza non minore a quella che attribuisco al lavoro produttivo. Il pensiero ha un potere enorme. E il capitalista, anche solo col pensiero, non si ferma mai. Non mi si dica che sono per il capitalismo feroce, capace di togliere il pane di bocca ai bambini, ma il capitalista pensa e si adopera sempre per gli affari. E lo fa volentieri. Gli piace così.

VITA: Oggi invece anche questo capitalista sembra paralizzato proprio nella sua

capacità di pensiero, ostaggio del panico. Che consiglio gli darebbe?

CONTRI: Il panico non è pensiero. Mentre il pensiero è attivo, attivo ed economico, il panico - osservazione che tutti possono capire, ma sulla quale, poi, mi si obietta sempre - ha qualcosa in comune con l’innamoramento: in ambedue i casi non si pensa più. Il panico che cos’è? A un certo momento nessuno pensa più. Di fronte, per esempio, a uno tsunami, il panico blocca il pensiero proprio quando sarebbe

sollecitato ad agire. E così i danni saranno maggiori. Agire, però, non equivale a salvarsi la pelle: questa è un’idea ingannevole. Le faccio l’esempio delle pecore che sentendo un’esplosione si mettono tutte a scappare: questo è panico per salvare la pelle. Intanto non è detto che riescano a salvarsi. Ma soprattutto è quell’idea che non salva. Perché viene meno il pensiero di continuare a produrre. Il panico è quando si rinuncia alla produzione: la caduta del pensiero è questa. Chi pensa solo a salvarsi la pelle non produrrà più, e rischierà di perdere la pelle stessa.

VITA: Faccia un esempio rispetto a quanto sta accadendo...

CONTRI: Un esempio: se oggi mille euro arrivano a valere un centesimo, non ha senso - a meno che non lo ci sia il pensiero di reinvestirlo in altri beni - andare in banca, ritirare tutti i soldi e metterli sotto il materasso. Il panico è proprio questo. Inoltre abbiamo un antico vizio: pensare a una “difesa-western”. Vale a dire: ci si difende soltanto con le pistole, e anche molti giornali lo dicono. Non è vero: chi pensa sa come arrivare a non avere il conflitto. Nel pensare di salvare la pelle c’è una tentazione: considerare il pericolo - o l’avversario - come un fatto naturale. Non conosco errore individuale più grave, ma anche politico, economico e di portata mondiale, che pensare alla crisi analogamente a un fatto sfavorevole e ineluttabile come un terremoto. Per questo ho rispetto per qualsiasi altra idea che porti a una soluzione come quella prospettata dal governo Bush. Almeno ne ha pensata una. Anche grazie all’intervento dello Stato. Ripeto: chi pensa solo a salvare la pelle, perde la pelle e gli affari. Si potrebbe fare anche un altro esempio, più alla portata della vita di tutti.

VITA: Lo faccia...

CONTRI: Io sono favorevole al precariato. A parte il caso in cui ci si trovi senza un lavoro retribuito, penso che una condizione favorevole sia quella di fare vari e successivi lavori. Per un venticinquenne neolaureato è la condizione a mio parere migliore: le competenze cresceranno col tempo. Passeranno, per esempio a trent’anni, da due a cinque. Di certo sarò per questo criticato da sinistra. Ma io dico sempre che la sinistra è stata danneggiata, più che dai liberali o dai moderati,

dai suoi leader storici...

VITA: Provi a definire chi è per lei il capitalista...

CONTRI: Portando tutto all’estremo – e qui citerei Max Weber –, il capitalista è uno che potrebbe vivere sotto i ponti, in una casa molto fragile o anche galleggiante sull’acqua. Ma è sempre uno che si muove per il profitto. Caso per caso, quella è l’unica cosa per cui si muove. La roccia su cui costruisce è il nesso tra oggi e domani. È il nesso tra il lavoro di oggi e il profitto di domani. Ciò che di roccioso ha il capitalismo è il suo pensiero di profitto. Se si registra un incremento di soli tre scellini, se cioè si è prodotto qualcosa di nuovo, il capitale, col lavoro della classe operaia, ha fatto i bambini, diceva a ragione Marx.

VITA: Sullo fondo di questa sua visione si vedono i riflessi della parabola dei talenti, quella del signore che affida ai tre servitori del denaro da far fruttare. È così?

CONTRI: Nei confronti di Gesù, mi chiedo cosa mai avesse in mente quando raccontò la parabola dei talenti: nessuno ha mai dato una risposta. Io, però, ho provato a darne una. I cosiddetti servitori sono degli operatori, e quanto accade nella parabola sembra trattarsi di capitalismo finanziario. Infatti in termini marxiani si passa da “D” a “D”, laddove con questa lettera si designa il denaro. Per Marx questo era un caso in cui non c’era vero profitto; ed è così: quello che sta succedendo oggi lo mostra. In realtà la parabola sottintende che il primo e il secondo servitore abbiano prodotto ricchezza - fosse anche, in termini moderni, per mezzo di lavoro. Il lavoro economico è quello di produzione, anche se nella parabola il modo di produzione del profitto non viene determinato. Vi si cita perfino il capitale finanziario: all’ultimo operatore che non ha saputo trarre profitto dal capitale ricevuto, si dice che almeno avrebbe potuto depositarlo in banca con gli interessi. E questa mi pare una concessione. È una concessione a doppio taglio: se non si è riusciti a fare profitto col lavoro, perlomeno si ottengano gli interessi dal deposito. È un ragionamento corretto: si usi lo strumento puramente finanziario - qui collego prestito e speculazione, tuttavia non li considero identici-, ma solo come ultima soluzione.

VITA: Gesù pone l’accento sempre sul lavoro, di qualsiasi genere - materiale, intellettuale, di relazione - esso sia. È così?

CONTRI: Il lavoro comincia nel pensiero. E quale lavoro il mettere in moto due o tre persone! Saper far lavorare è un lavoro rilevante.

VITA: Lei ha parlato del nesso tra il lavoro di oggi e il profitto di domani. Si può dire che ogni momento è propizio per il lavoro indirizzato al profitto?

CONTRI: Eccetto che nel panico e nell’inibizione, chi lavora per il profitto prende in considerazione persino l’idea di perdita. Non parlo certo del coraggio di chi si fa sparare stupidamente dal nemico. Ma di chi ha il senso del pericolo: si tratta di saperlo individuare nelle sue variazioni e condizioni. E parlo anche di chi si sa riprendere dopo un eventuale crollo. In tutto questo continuo a mettere al primo posto la promozione di ciò che è produttivo. La difesa in situazione di crisi è soprattutto promozione. Il principio della tolleranza è nella difesa: non si parte, infatti, dall’avere o meno l’esercito. Si parte dagli affari. Io non sono per la guerra; ma non sono nemmeno per il pacifismo. Una distinzione da fare è quella tra la pace che è prodotta e la pace che divide. Non si ottiene la pace perché si è buoni. La pace è collegata sempre a una produzione. L’ideale della pace non ha mai prodotto la pace. Non è la bontà a fare la pace: è piuttosto la produzione di ricchezza.

VITA: E così gli affari portano la pace.

CONTRI: Sono gli affari che producono la pace. Anzi, gli affari sono la pace. Se dovessi dire qualcosa sul paradiso, direi: o è un mondo di affari o è un cimitero.

VITA: Nemmeno là si riposa...

CONTRI: Una persona mediamente attiva non mette in contrapposizione il lavoro con il riposo. Il riposo dalla fatica muscolare è un’ovvietà. Il riposo dalla fatica mentale è ancora un lavoro. Al punto che quando sogniamo, ci riposiamo e insieme pensiamo. Quello mentale è un lavoro, che però non comporta affaticamento. Provare affaticamento è un segno di patologia. E in paradiso non si danno patologie...

VITA: Lei afferma che l’agire per un profitto è lavoro; e che lo sono, persino senza costo, anche il pensiero e il sogno. È economica ogni iniziativa?

CONTRI: Definire l’economia come regime di profitto è ciò che la dottrina economica ufficiale non ha fatto. Non si è ancora detto che solo quando c’è lavoro produttivo, profittevole, c’è economia. E la possibilità di una perdita vi sarebbe contemplata! Ma l’errore dell’economia ufficiale è questo: considerare tutto solo tramite la coppia costi-benefici. Di fatto oggi nulla, specialmente nel sistema scolastico, sostiene il nesso tra lavoro e profitto. Oggi, sembra un paradosso, ma sono gli extracomunitari a ricordarcelo.

VITA: In che senso?

CONTRI: Penso agli abitanti stranieri del mio quartiere, zona Nord di Milano. Vedo che tengono aperti i loro negozi fino a ora tarda, e fanno pagare, per esempio, uno shampoo tre euro invece che dieci. Hanno fatto i loro conti, e hanno visto come guadagnare. Del resto è quello che facevano, quando ero piccolo, i negozianti italiani nello stesso luogo. Ed è una dinamica esattamente contraria di ciò che continua a sostenere la psicologia di oggi: questa diffonde un pensiero che a Milano chiameremmo “schiscio”: vale a dire schiacciato, senza profitto. Bisogna stare “schisci”, ci dicono. Nient’affatto. Lavoriamo e teniamo aperti i negozi la notte.