Il ladro

Molti a Ittiri ricordano ancora il funerale di Gigammé: la partecipazione dei parroci e di tutte le associazioni religiose delle due parrocchie del paese, San Pietro e San Francesco, come nella processione del Corpus Domini. In più la banda musicale, il sindaco e il consiglio comunale al gran completo e una immensa folla.

Un forestiero che fosse capitato li per caso, vedendo la pompa religiosa e civile, nonchè la generale e commossa partecipazione popolare a quel funerale, avrebbe pensato che si accompagnasse nell’ultimo viaggio un personaggio di gran peso, una di quelle personalità che danno lustro ai piccoli centri, altrimenti privi di grossi richiami per eminenze munumentali, paesaggistiche o d’altra natura.

E invece si trattava dei funerali di un... ladro. L’unico ufficialmente riconosciuto come tale in tutto il paese.

Del resto se a Gigammé si fosse chiesto quale fosse la sua professione, cosa facesse per vivere, avrebbe risposto candidamente: “Il ladro”. Perchè dalla più tenera infanzia, quando era rimasto orfano di entrambi i genitori e senza parenti stretti che potessero provvedere a lui, altro non aveva fatto nella vita.

Erano quelli, tra l’altro, tempi difficili, i primi anni ‘40. La guerra aveva allontanato dal paese tutte le forze giovani e valide, lasciando soltanto le donne, i vecchi ed i bambini. La malaria imperversante riduceva le forze di chi era rimasto, emaciava i volti, piegava la volontà, mieteva vittime. Le campagne,semi abbandonate, languivano.

Per colmo di sfortuna, nella primavera-estate del ‘44 ci fu un’invasione di cavallette che distrusse il magro raccolto dei non molti campi coltivati.

I collegamenti col mondo esterno erano difficoltosi e molte merci, di cui c’era penuria ovunque, in paese non arrivavano più.

Per esempio, non arrivavano più i fiammiferi e in ogni casa ci si era dovuti attrezzare di pietra focaia e di acciarino per accendere il fuoco. Non arrivavano i tessuti e si era dovuti ritornare alla fabbricazione familiare degli abiti utilizzando la rozza lana di pecora locale che veniva cardata artigianalmente, prima di essere filata e poi tessuta nei telai presenti in ogni casa. La moneta era quasi scomparsa. Era ritornato in auge il medioevale baratto per cui persino il barbiere veniva pagato in natura.

Un salto indietro di qualche secolo, insomma.

In questo contesto era difficoltoso sopravvivere per tutti. I margini lasciati alla generosità, che pure non era scomparsa, si erano ridotti. Ciascuno doveva contare sopratutto su se stesso o sui membri della propria famiglia.

Gigammè, che non aveva famiglia, non aveva parenti stretti, era stato costretto ad “arrangiarsi”.

Esordì con i camion dei militari alleati che passavano in paese. Sapeva che si fermavano tutti al bar di Peppe Simula per un bicchiere.

Con qualche amico più grande aspettava l’arrivo delle autocolonne, prendeva di mira il camion delle derrate , vi montava su con un salto fulmineo, arraffava quanto poteva e lo lanciava all’amico che con pari prontezza raccoglieva e faceva sparire.

Con gli americani, che prediligeva perchè rientrando al bar di Peppe Simula riusciva a strappargli ulteriori scorte di cioccolato, qualche Camel e qualche amlira, un giorno però ebbe una grande disavventura e corse un rischio non da poco.

Quel giorno una camionetta s’era fermata presso due sorelle compiacenti il cui indirizzo evidentemente era conosciuto grazie al passaparola che per certe faccende funziona in tutti gli eserciti del mondo.

Gigammè conosceva il tempo che le due sorelle concedevano ai loro occasionali amici. Con tranquillità perciò si era accostato con un coltello affilato al sedile della jeep, imbottito di gomma piuma, assai apprezzata dai ragazzini del paese per la fabbricazione rudimentale dei loro palloni.

Si accingeva appunto a praticare sulla parte verticale anteriore del sedile il solito taglio per prelevare un pò del prezioso materiale da barattare poi con fichi sechi, olive e formaggio.

Non esagerava mai nel prelievo, perchè altrimenti i militari se ne sarebbero accorti subito e avrebbero collegato il furto al luogo della sosta e, sempre in virtù di radio fante, Gigammé avrebbe visto compromesso il suo business.

Forse qualcosa andò storto quel giorno fra i militari e le due sorelle o forse queste ultime, una volta tanto vennero richieste di una "fast performance".

Fatto è che mentre Gigammè era intento a prelevare con professionalità la giusta dose di gomma piuma, nè di più nè di meno del solito, si sentì prendere improvvisamente per il colletto dalle manacce di un negro gigantesco che incombeva minaccioso su di lui.

Vedere il militare e perdere il controllo degli sfinteri fu tutt’uno per il ladruncolo, che sia per il terrore che per la vergogna di quanto gli era appena successo diventò più piccolo e più smunto del solito e incominciò a piangere disperatamente.

A coloro che accorsero richiamati dalle strida e dai pianti del ladro si presentò un quadro che, a parte l’offesa grave all’olfatto, era davvero gustoso: un colosso negro (già la presenza di negri allora era motivo di grande curiosità, giacchè erano ancora lontani i tempi dell’arrivo massiccio nelle nostre contrade di senegalesi e ganeani) fissava imbambolato e confuso un ragazzino gracile e chiaramente terrorizzato, con i calzoni e persino i piedi scalzi che evidenziavano chiaramente le conseguenze della sua paura.

Il negro, ritrovato un po’ di sangue freddo e il suo collega nel frattempo sopraggiunto dovettero far ricorso a una manciata di cioccolatini per calmarlo, prima di allontanarsi velocemente, quasi i ladri fossero loro.

Questa disavventura naturalmente non dissuase Gigammè dal continuare l’attività che aveva scelto. Come non lo disuasse il primo arresto, avvenuto subito dopo la guerra, quando poteva avere forse 17- 18 anni.

A causare l’arresto fu il tentato furto perpretato a danno d’una coppia di anziani benestanti.

Il ladro s’era introdotto in casa loro in una domenica di festa, quando aveva visto la donna recarsi in chiesa per la Messa.

Come s’usava allora, quando c’era qualcuno in casa se si chiudeva la porta si lasciava la chiave nella toppa, per consentire agli eventuali ospiti di entrare senza per questo scomodare i padroni di casa.

Confidando nella notoria sordità del vecchio, Gigammè aveva attraversato senza farsi scorgere, con tranquillità, tutte le stanze prima di raggiungere quella, più grande delle altre, che custodiva il tesoro di famiglia: le giare dell’olio, il contenitore del grano (s’orriu);, il formaggio, le salsicce.

Fu proprio il profumo di queste ultime a tradire Gigammè, il quale, dimentico del poco tempo a disposizione, ne afferrò una e cominciò a mangiare di gusto.

E non bastò la salsiccia: dato che la degustazione era inizata, volle assaggiare anche il formaggio. E poi le nespole ciprò che su un cesto di paglia erano li a maturare.

Insomma: uno spuntino in piena regola , mentre il capace sacco che s’era portato dietro rimaneva ancora vuoto.

Fu proprio mentre si accingeva a riempire il sacco che rientrò Tia Filumena, la padrona di casa.

Come ogni volta che rientrava in casa, l’anziana donna, appena toltosi lo scialle, s’era diretta al magazzino: la visione del bendidio che vi era conservato, le dava conforto e sicurezza in quei tempi di carestia.

Ma stavolta la sua attenzione fu attratta da strani rumori, che non potevano essere della gatta o di qualche topo.

Presa da timore, spinse piano piano la porta e scorse il ladro che riempiva il sacco e non si era nemmeno accorto del suo arrivo.

Lanciò un urlo terribile: “I ladri, i ladri!!” .

Corse come un’indemoniata fuori per la strada continuando a gridare “I ladri, i ladri” !!

Accorse il marito, accorsero i vicini, uno addirittura con un forcone che aveva agguantato in tutta fretta e si diressero tutti verso il magazzino delle derrate violato.

Gigammè non aveva trovato miglior rifugio che nel granaio, s’orriu, che aveva raggiunto con un salto da acrobata spiccato da un tavolo e pensando di essere irragiungibile si era mezzo sprofondato nel grano.

Non trovandolo da nessuna parte, intanto, le persone accorse cominciavano a dubitare della presenza d’un ladro, pensavano che Tia Filumena avesse dato corpo solo a sue paure e lo dicevano ad alta voce, mentre la vecchia, ancora tremante per lo spavento, agitata, giurava d’averlo visto bene coi suoi occhi.

Stavano tutti quasi per andarsene, quando lo sguardo cadde sul sacco nel quale erano riposte alcune salsicce e pezzi di formaggio. Il pensiero fu rivolto a s’orriu : solo li poteva essersi nascosto il ladro.

Cominciarono percò a tempestare le pareti del granaio con bastoni e col forcone e alla fine, sopra l’orlo superiore, apparve la testa d’un Gigammè spaventastissimo che cercava disperatamente di aggrapparsi all’orlo de s’orriu, mentre i piedi sprofondavano nel grano.

Gli fu minacciosamente intimato di scendere.

Ma non era facile spiccare un salto da tanto in alto e partendo da un piano d’appoggio poco consistente com’era quello offerto dal grano.

Alla fine, quando già era comparsa una scala per andarlo a prendere, per evitare il peggio, Gigammé si aggrappò agli orli del granaio, chiuse gli occhi e spiccò il salto.

Finì per cadere dentro la giara dell’olio il quale, all’impatto, schizzò in tutte le parti. Furiosi per essersi visti imbrattare gli abiti che, pur se modesti, erano quelli della festa, due uomini lo bloccarono nella giara fino all’arrivo dei carabinieri che qualcuno aveva intanto chiamato.

Quando lo tirarono fuori dalla giara, tutto intriso d’olio e tremante, sembrava un polipo pronto alla frittura.

Condannato, stette per qualche anno in prigione e poi fu scarcerato.

Ma l’inglorioso epilogo dell’episodio che l’aveva portato in carcere e il ridicolo che gli aveva procurato in tutto il paese, lo convinsero a cambiare aria, ad andarsene in città.

Da allora, i compaesani seppero di lui solo attraverso la cronaca nera, quando, periodicamente, veniva arrestato, solitamente per borseggio.

Poi, dopo tanti anni ,quando ormai aveva superato i 45, fece ritorno in paese.

Il suo corpo che prima era minuto, delicato, s’era imbolsito, appesantito e mostrava i segni del tempo e di vicissitudini non liete. I capelli erano diventati precocemente radi e bianchi, ma uno sguardo incredibilmente fiducioso e confidente, gli aveva consentito di conservare l’aspetto di stupefatto candore che aveva da ragazzino.

Gli innumerevoli anni di galera che a più riprese s’era fatto, stranamente non avevano modificato nè indurito, come ci si sarebbe aspettati, il suo volto.

Del resto, Gigammè non aveva commesso mai reati odiosi, non aveva mai impugnato una pistola o un coltello per minacciare od offendere. Odiava la violenza. Aveva fatto solo ... il ladro, cosa che a lui appariva del tutto naturale, come fare il muratore, o il postino.

E se ora non lo faceva più ed era ritornato in paese era perché ormai aveva perso la destrezza che gli occorreva per non farsi “prendere” e soprattutto perchè ormai era ”anziano” e, come tutti gli anziani, riteneva d’aver diritto al riposo.

Ma forse, anche se inconscio, era anche il desiderio di ritrovare una famiglia, degli affetti, la normalità, che l’avevano spinto a smettere e a rientrare in paese, dove, forse anche per l’evidente fragilità della persona, per il suo aspetto inoffensivo, da vecchio zio un pò strambo ma buono, ispirava sentimenti protettivi, più che diffidenza.

Fatto sta che il paese lo adottò, perdonandogli interamente il passato.

Il Comune, al quale s’era rivolto per un sussidio, anzichè soldi gli concesse un alloggio, assai modesto, ma dignitoso.

Il parroco, don Merella, gli faceva fare dei piccoli lavoretti, compensandolo con piatti di pastasciutta e qualche pezza di formaggio.

Ma si può dire che tutto il paese concorresse al suo sostentamento, quasi sentisse l’obbligo di compensarlo di attenzioni che gli avevano fatto mancare o che non gli avevano potuto dare quando, ragazzino orfano, ne aveva avuto bisogno.

Sembrava che tutta la comunità volesse istintivamente risarcire la prematura perdita della famiglia, la sottrazione dell’infanzia e dell’adolescenza che Gigammè aveva subito.

C’erano persino delle persone che gli lavavano la biancheria, lo aiutavano a pulirsi la casa, insomma lo accudivano.

E infatti il suo aspetto appariva curato, gli abiti modesti ma decorosi.

Di tutti si informava premuroso, come un vecchio affezionato amico.

E così in poco tempo venne a conoscere, di ogni famiglia, vita e miracoli , diventando quasi la memoria collettiva di tutto il paese.

A tutti indistintamente dava del tu, ma sempre rispettosamente .

Non c’era poi banchetto per matrimonio, festa patronale o altro al quale lui non si presentasse puntualmente, accolto quasi sempre con benevola simpatia.

Quando poteva e voleva, Gigammè ricambiava procurando ai benefattori finocchietti selvatici, lumache, funghi.

Ma a dire il vero non si agitava tanto: lui, teneva a dirlo, non aveva mai lavorato nè amava il lavoro. Il suo mestiere, sosteneva, era fare il ladro, anche se non lo faceva più perchè si considerava un pensionato.

E a raccontare sapidamente le imprese della sua lunga carriera di ladro nel bar di Careddu, dov’era presenza fissa dal mattino sino a sera, dedicò gli ultimi suoi anni di vita.

Raccontava con una vocetta sottile, che risentiva di inflessioni mezzo romane e mezzo napoletane acquisite con l’italiano dai suoi compagni di cella nelle carceri di mezza Italia.

E stava raccontando per l’ennesima volta le sue avventure ai divertiti avventori del bar Careddu quando, una sera d’inverno, improvvisamente sbiancò in volto e si accasciò.

Lo portarono prontamente all’ospedale, dove i medici gli riscontrarono una grave disfunzione cardiaca.

Il suo capezzale, nei pochi giorni di vita che gli restarono, fu meta di tantissimi ittiresi, sinceramente addolorati.

Poi la fine, tra il compianto generale.

Aveva poco più di 50 anni, di cui più di un terzo, forse, trascorsi dietro le sbarre per furtarelli di poco conto.

Michelangelo Delogu