L'ultimo reduce di Adua

Tiu* Andria Cavone godeva fama di uomo tutto d’un pezzo, inflessibile, che non scendeva mai a compromessi.

Noi ragazzi lo si avvicinava volentieri negli anni cinquanta, durante le sue lunghe passeggiate a Cannedu, allorquando, ormai in età avanzata, era solito raccontare episodi di una strana guerra combattuta mezzo secolo prima, in una ancor più strana terra.

Era l’ultimo reduce, ancora in vita nelle nostre parti, della Prima Guerra Coloniale italiana del 1895–6. Un redivivo della cocente sconfitta di Adua del 1° marzo 1896, scampato miracolosamente alla morte ed accreditato, come protagonista, a rievocarne gli eventi.

Appena ventenne era partito nel 1893 in forza all’8° reggimento bersaglieri alla volta dell’Eritrea ancora non del tutto assoggettata ed allora affidata al comando dell’ex garibaldino generale Baratieri. Dopo un lungo viaggio a bordo di una nave da guerra, attraverso il Mediterraneo ed il mar Rosso, era sbarcato nel porto di Massaua, per proseguire quindi per il capoluogo Asmara.

Non aveva avuto il tempo di godere degli agi di questa città che vantava molte bellezze femminili ed un clima temperato, perché c’era stato, subito dopo, il battesimo del fuoco. Aveva dovuto partecipare alla spedizione punitiva contro i Dervisci ad Agordat e Cassala e quindi, superati i confini del Mareb, alle incursioni nel Tigrai per la dispersione delle bande di Ras Mangascià e la successiva occupazione di Macallè, Adigrat, Adua ed Aksum.

Dette azioni belliche erano state intervallate da frequenti puntate nell’interno, che avevano palesato una realtà non molto dissimile da quella vigente nei nostri luoghi circa lo stato di arretratezza e di ignoranza delle popolazioni locali.

Nelle campagne per la maggior parte impervie – l’economia era pastorale – si veniva accolti e rifocillati nei Tucùl (costruzioni cilindriche in paglia e terra pressata con tetto conico, molto somiglianti alle Pinnete dei nostri pastori), con spirito amichevole e con larghe aperture a rapporti di socievolezza e, spesso, di cordialità. Venivano offerti di buon grado latte di pecora e capra ed i loro derivati, fra cui eccellenti yogurt e ricotte mustie.

E’ proprio in una di queste Pinnete che Tiu Andria aveva trovato scampo la notte del 1° marzo 1896 nella conca di Adua, in stato confusionale, dopo un’intera giornata di combattimenti con furiosi corpo a corpo, per sottrarsi alla carneficina compiuta dalle forze del negus Menelik ai danni delle truppe di Baratieri.

Costui era passato all’offensiva, pressato dalle insistenti richieste di Crispi, che esigeva una immediata rivalsa a seguito della sconfitta dell’Amba Alagi, in cui aveva perso la vita con quasi tutti i suoi soldati indigeni il maggiore Toselli e la successiva resa del forte di Macallè, al comando del maggiore Galliano.

Era imbaldanzito, il Baratieri, dai successi ottenuti nel Tigrai ed affrontava Menelik, sicuro di poter agevolmente disporre dell’avversario, convinto com’era, per errate informazioni, di dover competere, con i suoi 18.000 soldati, fra italiani e indigeni, con forze non superiori ai 30–40.000 effettivi. In realtà il negus disponeva di oltre 110.000 uomini.

Ignorava, il Baratieri, di essere già stato sostituito al comando supremo dal generale Baldissera, che doveva arrivare sul posto tre giorni dopo la sconfitta e, inspiegabilmente, in borghese e sotto falso nome (in Italia si cantava allora: “Oh Baldissera, non ti fidar di quella gente nera!”).

Ignorava altresì, ma questo era addebitabile all’insipienza del nostro governo, che al nemico erano stati venduti dall’Italia, in netta contrapposizione con la politica delle altre potenze coloniali concordi nel non volere armare i paesi africani, quattro milioni di cartucce che erano state come una vera manna per un Paese che non aveva fabbriche di polvere da sparo.

Gli abissini erano, pertanto, armati pressappoco come i nostri e godevano di una schiacciante superiorità numerica. Il rapporto era di oltre 6 a 1 in loro favore.

Lo scontro era stato molto sanguinoso. Gli italiani erano arrivati in tre colonne separate, stanchi ed assonnati per la lunga marcia e dopo aver perduto il collegamento fra di loro per difficoltà logistiche e per un errore topografico. Erano stati così facilmente sopraffatti, nonostante il grandissimo valore, dopo un’intera giornata di furiosi combattimenti, con ripetuti corpo a corpo di inaudita violenza.

Il bilancio era risultato pesantissimo: i morti di parte italiana furono quasi settemila (quanti ne erano caduti in tutte le battaglie del Risorgimento) compresi due dei quattro generali e i prigionieri oltre cinquemila. Numerosi anche i dispersi che rischiavano di cadere nelle mani di bande irregolari che operavano nella zona con ferocia, bande che non riconoscevano l’egemonia del negus ed aggredivano indifferentemente Etiopici ed Italiani. Fra i tanti sbaragliati in rotta, figurava anche il nostro Andria che era stato soccorso nottetempo mentre vagava, a distanza di alcuni chilometri dal teatro della battaglia, senza meta e frastornato e con la divisa a brandelli ed insanguinata. La sorte gli era stata favorevole grazie all’incontro con un pastore che, con grave rischio personale, lo aveva nascosto nella sua Pinneta.

Per diversi giorni, finché i predoni avevano imperversato nei dintorni, era rimasto accucciato su una stuoia in un angolo dell’occasionale dimora, assistito generosamente e sfamato con la scarse cibarie disponibili. Aveva vissuto, a suo dire, un’avventura a lieto fine che lo avrebbe segnato per il resto dei suoi giorni.

Ancora inebetito per la terribile peripezia, si era messo in cammino puntando verso nord, in direzione dell’Eritrea. Aveva viaggiato sempre di notte, osservando mille precauzioni e preoccupandosi di tenersi a debita distanza e, quindi, allungando notevolmente il percorso per le continue diversioni, dal latrare dei cani o da qualsiasi altro rumore sospetto. Si era sottratto alla fame per merito delle modeste fette di formaggio e di ricotta mustia donate dai protettori, che aveva dovuto rigorosamente razionare. La mitezza del clima lo aveva molto favorito. Le temperature infatti, non superavano mai nell’arco dell’anno i 30° centigradi, né scendevano al di sotto dei 20°. Ciò, nonostante la zona fosse più o meno a metà strada fra il tropico e l’equatore. Faceva, però, parte dell’Acrocoro, il vastissimo altipiano etiopico che aveva mediamente un’altitudine di duemila metri ed un clima favorevole.

Era così riuscito faticosamente ad arrivare ad Adi Ugri, piccolo centro ad una cinquantina di chilometri da Asmara e sede di una piccola guarnigione dell’esercito italiano. Aveva percorso in otto notti di marce forzate circa 130 chilometri.

L’impresa fuori dal comune aveva suscitato vive simpatie nei suoi confronti ed attestati di stima da parte del nuovo comandante in capo Baldissera. Che aveva subito iniziato a riallacciare, seppur da una posizione non di forza, i normali rapporti diplomatici col negus, per negoziare una onorevole pace che venne conclusa nell’ottobre del 1896 col trattato di Addis Abeba.

Tiu Andria venne, dopo qualche mese, rimpatriato con ciò che restava del primitivo corpo di spedizione africano, e fatto sbarcare di notte a Napoli, come se fosse un criminale. Uguale sorte venne riservata alle migliaia di prigionieri restituiti in libertà dietro pagamento di dieci milioni di lire pretese dal negus per il loro mantenimento.

Le successive vicende lo avevano portato in giro per il mondo. Aveva lavorato come manovale generico in Russia, a Pietroburgo ed a Tallin e, quindi, in una miniera di ferro in Algeria.Rientrato a casa aveva intrapreso il mestiere di barbiere che avrebbe esercitato sino ad età avanzata.Dei figli, uno raggiunse il grado di generale dell’esercito ed un altro, scomparso prematuramente, aveva conseguito due lauree, in Veterinaria ed in Medicina e Chirurgia.

*Appellativo di rispetto che non implica legame di parentela.

Salvatore Carboni