Cattivi incontri

Ero partito di buon mattino da Sassari per la solita visita ad alcuni clienti del Nuorese.

Nel primo pomeriggio ero arrivato a O., dove vive e lavora un cliente che, oltre a

concedermi l’esclusiva di tutto quel poco che ha sempre acquistato per la sua minuscola azienda,

mi ha sempre dato segni di grande amicizia e considerazione.

Sono stato presente alla cresima del primo figlio, al matrimonio delle due figlie e molte

volte anche al rustico festino che allestiva in occasione dell’uccisione del maiale.

Di solito nel primo pomeriggio non vado mai dai clienti: lavorano di notte nei loro panifici

e il pomeriggio e la sera la trascorrono a letto, a riposarsi.

Ma sapevo quanto il mio cliente-amico di O. tenesse alle mie visite e non volevo che

qualche suo collega dei paesi vicini gli riferisse ch’ero passato in zona. Sapendo che non mi ero

fermato anche da lui, si sarebbe senz’altro risentito.

Così mi decisi di bussare alla sua porta, sperando in cuor mio di trovare la più giovane

delle figlie, con la quale mi sarebbe stato più facile trovare un pretesto per non svegliare il padre

e quindi prendere la strada del ritorno.

Trovai invece la moglie, una donnona tanto alta ed imponente quanto minuscolo e

fisicamente insignificante era il marito.

Con la gentilezza semplice e calorosa con la quale m’aveva sempre accolto in casa, mi fece

accomodare pregandomi di aspettare il marito, ch’era dovuto andare in una campagna vicin , da

amici.

Non mi parve vero di poter adempiere agli obblighi di ospite con poca spesa: dissi che non

volevo rientrare tardi in città e stavo per accomiatarmi.

Ma la donna non volle sentir ragioni. Mi disse che il marito si sarebbe offeso se non

l’avessi aspettato e intanto si metteva sulla porta quasi ad impedirmi di uscire.

Dovetti sedermi ad aspettare.

Ma dopo una mezzoretta, accampai impegni inderogabili in città per la sera e stavo per

partire, quando la donna mi pregò di passare almeno a salutare il marito: la campagna dove s’era

recato non era infatti lontana e inoltre si poteva facilmente raggiungere con la macchina e mi ci

avrebbe accompagnato il figlio.

Mi rassegnai e m’avviai col ragazzo.

Era una giornata fredda di gennaio.

Il cielo era terso, senza una nube. Aveva quell’azzurro intenso che solo in gennaio, e

raramente, assume da quelle parti.

Avendo piovuto abbondantemente nel primo autunno, la terra era già coperta d’un sottile

manto erboso, che le conferiva quasi un aspetto primaverile, confermato da qualche mandorlo

che iniziava a rivestirsi dei primi fiori.

Lasciata la strada provinciale, imboccammo una stradina di penetrazione agraria, sterrata,

con molte piccole buche, percorribile con qualche difficoltà.

Il paesaggio attorno mutò quasi all’improvviso: ai prati, punteggiati di qualche rada

quercia o rovere, popolati di pacifiche greggi al pascolo,che si potevano scorgere dalla

provinciale, si erano sostituiti intricati boschetti di lecci che crescevano in un terreno aspro, irto

di rocce granitiche affioranti, in parte coperte di muschio.

Grossi macchioni di lentischio e di cisto contribuivano a dare al tutto un aspetto selvatico e

direi primordiale .

Nessuna traccia dell’uomo o del suo lavoro, né degli animali che alleviano la sua fatica o

lo nutrono, intorno.

Sembrava che lasciando l’asfalto della provinciale avessimo anche lasciato alle nostre

spalle la civiltà; ritornati indietro di millenni e penetrati nel mondo com’era quando ancora non

aveva visto forme di vita animale e umana.

Passavamo in una zona d’ombra e c’era nell’aria un forte sentore di lentischio e di

umidore.

Un senso di solitudine strano, quasi inquietante, aveva incominciato a prendermi..

Finalmente, dopo una ventina di minuti che a me parvero un secolo, subito dopo una curva

a gomito, scorgemmo una piccola radura ed una casetta bassa,quasi anacronistica in quel posto,

dal cui tetto sbucava un comignolo fumante.

Il ragazzo, che era rimasto silenzioso lungo il tragitto, limitandosi solo ad indicarmi la

strada da percorrere, mi fece capire ch’eravamo arrivati.

Il rumore della macchina fece affacciare due persone.

Avevano il piccolo berretto dei pastori barbaricini appena posato sulla sommità della testa,

la giacca di velluto e i gambali di cuoio.

Il loro atteggiamento denunciava subito la sorpresa e la diffidenza, appena attenuata dalla

presenza del ragazzo, che evidentemente conoscevano.

Intanto rimanevano sul limitare dell’uscio, quasi a proteggerne l’entrata, lo sguardo duro,

interrogativo ma non ostile, fisso su di me.

Chiesero al ragazzo chi fossi. Avutane risposta, si scostarono appena, facendo cenno di

entrare. Non un moto di gentilezza nei loro modi, ma nemmeno di scortesia.

L’interno della casetta, priva di finestre, per me che venivo dalla luce del pomeriggio,

appariva quasi completamente al buio, rischiarato solo dalle fiamme del camino, attorno al quale

scorsi quattro o cinque figure accovacciate a semicerchio, su dei bassi sedili cubici di sughero.

Metà d’un porcetto, infilzato in uno spiedo rudimentale era appoggiato allo stipite del

camino ad arrostire, mentre in un contenitore appena leggermente concavo di sughero c’era

l’altra metà, già cotta, che i presenti stavano mangiando, in uno strano silenzio.

Il mio arrivo non destò apparentemente alcuna sorpresa né alcuna reazione.

Solo il mio amico, l’unico a non avere il berretto barbaricino sulla testa, si alzò

prontamente per venirmi incontro.

Il suo atteggiamento, rispettoso come sempre, tradiva una sorta di contenuto timore

ed una contrarietà che cercava di mascherare con evidente sforzo.

Perciò alla mia inquietudine si aggiunse l’imbarazzo.

Pensai per un momento di poter giustificare la mia visita dicendo che la moglie aveva tanto

insistito perché passassi a salutarlo, ma mi fermai in tempo e non lo feci.

Dissi in fretta ch’ero passato a salutarlo e stavo per andarmene.

Ma uno degli uomini, quello che occupava la posizione centrale accanto al camino e che,

come gli altri, aveva il berretto di sghimbescio un po’ inusualmente calato sulla fronte, ruppe il

silenzio e, rivolto al mio amico:

-Così tratti i tuoi ospiti! Fallo sedere e offrirgli da mangiare -.

Il tono della voce era calmo, ma aveva qualcosa di imperioso che la rude e asciutta parlata

barbaricina accentuava ancora di più.

Capii che non potevo andarmene e del resto ora una sorta di inspiegabile attrazione mi

spingeva a condividere un brandello di vita di quegli uomini, di cui intuii la condizione e la

probabile professione.

Mi sedetti perciò anch’io su uno sgabello di sughero e gli altri si strinsero un poco per

farmi posto accanto al fuoco.

Senza che venisse proferita altra parola, mi venne offerto il contenitore della carne e un

bicchiere di vino.

Iniziai a mangiare in un silenzio irreale.

Al mio amico, che pure conoscevo abbastanza loquace e che era uso, tutte le volte che lo

visitavo, chiedere notizie di ciascun membro della mia famiglia, dare ragguagli sulla sua,

chiedere consigli, sembrava fosse improvvisamente mancato l’uso della parola e se ne stava

zitto, manifestando la sua premura solo con l’offrirmi più volte del dovuto il contenitore della

carne e tentare di riempirmi anzitempo il bicchiere di vino, forzando un po’ la mia resistenza.

Ad un certo punto, l’uomo che aveva parlato, sollevò il capo che fino allora aveva tenuto

abbassato, come gli altri, del resto, e ,non so come ,il mio sguardo incrociò il suo: il lampo

feroce, quasi ferino, di quegli occhi e l’immediato collegamento ad un’immagine vista

ripetutamente sui giornali, mi fecero trasalire ed un brivido, come lama, attraversò la mia

schiena.

L’uomo colse il mio trasalimento e non so se per segnalarmi d’aver capito e insieme per

avvertimento e rassicurazione mi fissò un istante e poi rivolgendosi con tutta calma al mio

amico, e,con voce incolore, disse piano, ma in modo che anch’io sentissi:

- chi è il tuo ospite?

- è di Ittiri, anche se vive a Sassari. E’ persona seria ed è mio amico da sempre -, rispose

prontamente, dando in questo modo, penso, le coordinate essenziali sul mio conto, una sorta di

salvacondotto.

Ittiri è noto paese di tradizioni rurali e pastorali. Anche se lontano dalla cultura barbaricina,

chi vi è nato non può essere del tutto estraneo alle eterne leggi della campagna sarda.Il

riferimento al paese di nascita fatto dal mio amico voleva dire probabilmente questo..

E questo infatti parve bastare all’uomo, che non chiese più niente.

Quando finimmo di mangiare anche la metà del porcetto che stava arrostendo, la persona

che ormai avevo riconosciuto, si alzò, prontamente seguito dagli altri , avviandosi verso

l’esterno.

Dopo aver salutato il mio cliente e aver fatto un piccolo cenno di saluto a tutti gli altri

presenti, prima di salire in macchina mi parve di non poter fare a meno di avvicinarmi al capo

per ringraziarlo dell’ospitalità. Ma questi mi trattenne per un braccio e poi rivolto al mio amico:

- I tuoi ospiti li lasci andar via a mani vuote?- e senza aggiungere altro, prese un sasso e lo

scagliò con forza in direzione di un porcetto che assieme ad altri cinque o sei, razzolava ad una

cinquantina di metri da noi.

Il porcetto, raggiunto dal sasso nel punto giusto, stramazzò.

Ad un cenno del capo, un uomo andò a raccogliere il porcetto, cui fu fatto bruciare il

pelame su un fuocherello subito allestito, e, una volta raschiatagli la cotenna per eliminarne la

cenere, mi fu consegnato pulito.

Solo allora il capo volle stringermi la mano, fissandomi in maniera significativa, senza dire

parola.

Io capii il suo messaggio e, confuso, risposi con un cenno appena percepibile del capo...

Quando finalmente raggiunsi la provinciale, stava ormai per calare la sera.

Le macchine che sfrecciavano sulla strada, mi davano un senso di appartenenza che mi

rincuorava.

Mi sembrava d’essere uscito da un sogno simile a quelli che facevo da bambino, dopo aver

udito i racconti sui banditi che mi faceva un mio vecchio prozio.

Una folla di domande si affacciava alla mia mente. Volevo tacitare il conflitto che già

s’affacciava alla mia coscienza, dimenticare.

Dimenticare, si. Ma non fu per niente facile. Per parecchi giorni e soprattutto notti, quando

rimanevo solo con me stesso, la coscienza non mi dava requie.

Anche se molto più radamente che in passato, più volte, negli anni successivi, rincontrai il

mio cliente, che nonostante tutto continuavo a ritenere persona onesta, e mai, né da parte mia né

da parte sua, ci fu il minimo accenno all’incontro di quel freddo pomeriggio di gennaio. Né mai

ad altri, nemmeno a mia moglie, parlai di quella storia.

Michelangelo Delogu