Natalina

Era una mia collega. Una sartina che lavorava da Moccolo: così chiamavano tutti in paese

un uomo, di professione sarto, che per una malformazione che aveva dal momento della nascita,

appariva piccolo, tozzo e gobbo. La deformazione, però, non aveva influito sul suo carattere,

perché Moccolo era fermamente convinto di compensare largamente le deficienze fisiche con

sovrabbondanti doti di intelligenza e di sagacia che, a dire il vero, non tutti gli riconoscevano.

Tutti gli riconoscevano, però, molta furbizia e una certa capacità di venire fuori da tutti i pasticci.

Anche queste ultime dovevano essere però capacità evidentemente sovrastimate, se non erano

riuscite a fargli evitare tanti brutti capitomboli.

Con le donne, al cui fascino era particolarmente sensibile, vantava ammiccante anche altre

qualità, che non so quanto corrispondessero a verità. Deponeva comunque a suo favore il fatto

d’essere riuscito a sposare una ragazza che, oltre ad essere d’una quindicina d’anni più giovane

di lui, era anche bellissima.

Nel proprio luogo di lavoro aveva costituito attorno a sé una piccola corte, comprendente

una parte dei pochi che in paese allora facessero attività “intellettuali”: due veterinari, tre o

quattro studenti universitari di lungo corso, un paio di giovani avvocati ancora senza clienti. Gli

unici ai quali ritenesse comparabile il suo status e quindi degni della sua compagnia. Questi

trascorrevano buona parte delle loro serate a raccontarsi per l’ennesima volta improbabili

avventure boccaccesche o a commentare i fatti spiccioli del paese.

La faccia larga, un sorriso perenne che voleva essere di superiorità, come un Budda sul

trono, Moccolo se ne stava seduto per la maggior parte del tempo su un’alta poltrona sul cui

sedile erano numerosi cuscini, dietro il banco di lavoro, che usava come una cattedra. Dal suo

scranno, come un Giove tonante, faceva piovere i suoi ordini, l’approvazione o la

disapprovazione, i suoi motteggi e i suoi lazzi.

Il banco di lavoro era sistemato in uno stanzone che s’affacciava sulla via principale del

paese. Lo stanzone fungeva anche da negozio di articoli di profumeria, frequentato da scarsissimi

clienti.

Sul retro, separato da uno stretto corridoio che faceva da filtro, c’era il laboratorio dove

lavorava quella che Moccolo definiva con sufficienza la sua ciurma: una decina di lavoranti tra

uomini e donne, tutti giovani o giovanissimi. Il maggiore per età ed esperienza professionale era

Aldo, che poteva avere allora 23-24 anni e fungeva da capo operaio. Era l’unico, eccettuata

Natalina, che Moccolo si degnasse di chiamare col proprio nome e che tenesse in una certa

considerazione, forse perché era l’unico in grado di mandare avanti la baracca e il non molto

lavoro che arrivava da una clientela in progressivo esaurimento. Moccolo infatti disdegnava ogni

genere di lavoro in sartoria (imbastire, cucire, stirare, etc.) ritenendolo non alla sua altezza, e si

limitava a fare esclusivamente quello di taglio, che circondava di mistero e che effettuava con

una solennità straordinaria, quasi celebrasse un rito esoterico.

Su Mastrhru (come esigeva d’essere chiamato Moccolo da tutti i suoi dipendenti), non

chiamava questi ultimi, come dicevo, col proprio nome, ma fatta eccezione per Aldo per la

ragione sopradetta e per Natalina, con vari epiteti, a seconda delle caratteristiche personali che di

ciascuno l’avevano colpito. Così c’era Sa Toppa, una ragazza che zoppicava; c’era Sa ‘Ona, una

brunetta piccola di statura, ma assai vivace e simpatica, dotata d’un seno prorompente che, con la

scusa di spruzzarvi del profumo, Moccolo cercava di sfiorare attraverso la scollatura generosa

della maglietta attillata, tra le non convinte schermaglie e proteste della ragazza. La cerimonia

della profumazione avveniva puntuale ogni mattina. E c’era Nestorio, un biondino esile dagli

occhi chiari, abbastanza alto, dai modi e atteggiamenti d’una delicatezza femminea, che era

l’oggetto privilegiato del dileggio e del sarcasmo di Moccolo e dei suoi amici. Gli epiteti

riservati a Nestorio erano tanti e tutti squallidamente offensivi e alludenti ad una sua pretesa

omosessualità. Non passava giorno senza che il povero ragazzo venisse chiamato da Su Mastrhu

e sottoposto davanti ai suoi amici e col loro concorso ad ogni sorta di vituperio tra gli schiamazzi

della congrega. Nestorio sopportava tutto con ammirevole e per me incomprensibile pazienza,

protestando debolmente e manifestando il suo disagio solo attraverso un curioso arrossamento

delle orecchie, che era diventato anch’esso motivo di ulteriore dileggio e sarcasmo ai suoi danni.

C’era Sa Furistera, una ragazzina giunta di recente da un villaggio dell’interno dell’isola, d’una

bellezza acerba e selvaggia, sempre in posizione di difesa, quasi s’aspettasse un’aggressione da

un momento all’altro in un ambiente ostile e ignoto. Persino gli occhi, mobilissimi e quasi

sempre impauriti, da cerbiatto inseguito, denunciavano paure per i giovani colleghi

incomprensibili.

E c’era Natalina.

Poteva avere, quando io iniziai a lavorare da Moccolo, vent’ anni. Io ne avevo 15 ed ero

capitato lì dopo una breve esperienza, durata un paio d’anni, presso un altro sarto del paese,

Clodio, un romano con tutte le stigmate proprie del popolano romano: caciarone, un po’

gradasso, narciso. Lavorava intensamente e tumultuosamente, per 13-15 ore al giorno, con una

dozzina di dipendenti in una stanza non più grande di 20 metri quadri, in una confusione

indescrivibile, alternando stornelli cantati a squarciagola ad improvvisi scoppi d’ira e richiami

urlati nei confronti di qualche lavorante incorso in una qualche disattenzione nel lavoro. A lui,

perché era amico di mio fratello Antonio e quindi bazzicava la nostra casa, m’aveva affidato,

all’età di tredici anni, mia madre, per sottrarmi a quello che riteneva il destino riservato a quelli

che portavano il mio nome: una morte accidentale in campagna. Infatti tanto il fratello quanto lo

zio aventi lo stesso mio nome, erano morti giovanissimi accidentalmente nei campi. Io avevo

accettato con scarso entusiasmo.

Ero contento sì di lasciare il lavoro faticoso del contadino, iniziato a 11 anni, e anche di

fuggire la possibile iattura legata al mio nome, ma avrei preferito fare il fabbro, come mio

padrino Giommaria, che io tanto ammiravo. Al lavoro di sarto, anche se allora chi lo esercitava

guadagnava abbastanza e faceva il “signore”, come diceva mio padre, non mi sentivo adatto. Mi

sembrava un lavoro da donne. Ma, nonostante la mia resistenza, la volontà di mia madre aveva

finito col prevalere. Il lavoro del fabbro obbligava ad aver contatto coi cavalli, quando li si

doveva ferrare. E proprio per un calcio di cavallo era morto il fratello.

Dopo appena qualche settimana dal mio arrivo, Moccolo aveva provveduto a darmi il

nomignolo: Rebelle, forse perché ero l’unico che osasse protestare per gli orari che ci faceva

fare, anche lui 12-13 ore, tra l’altro inutilmente, visto che, a differenza di Clodio, che era

sovraccarico di lavoro, da Moccolo quest’ultimo scarseggiava, tanto che spesso si rimaneva per

ore senza far niente.

Natalina era diversa da tutte le altre. Era abbastanza alta, snella, un viso d’un ovale perfetto

che quando ti guardava o ascoltava con attenzione aveva l’abitudine di reclinare leggermente

sulla sua sinistra. Il collo bianco, delicato, lo teneva quasi sempre coperto da magliette con giro a

vita. Gli occhi castani chiari, erano grandi ed espressivi. Ammirando più tardi le Madonne del

Beato Angelico, la loro grazia intensa e delicata, lievemente malinconica, il loro incarnato, mi

dovevo ricordare proprio di Natalina. Le mani curate, piccole, affusolate, il portamento

improntato ad una dignità contenuta, ispiravano un grande rispetto. Non so se fosse consapevole

della sua bellezza; ma anche se lo fosse, non ne dava segno, perché era d’una semplicità

disarmante. Di lei colpiva sopratutto il sorriso largo, fiducioso.

Dopo qualche tentativo d’approccio per la “profumazione”, respinto con tranquilla

fermezza, Moccolo aveva finito con lasciarla in pace. Penso, anzi, che avesse finito

coll’affezionarsi a quella sua sartina rispettosa, ma capace anche di farsi rispettare, tranquilla e

serena in ogni circostanza. Segno ne era il fatto che, talvolta la chiamasse signorina, in tono

d’insolito rispetto.

Del resto, Natalina, ispirava sentimenti di rispetto e di affetto a tutti i colleghi e io ero tra

questi.

Dopo circa un anno dal mio arrivo, non ricordo per quale motivo, Natalina cominciò a

diradare le sue presenze sino a lasciare del tutto la sartoria, a non farsi vedere più.

La rividi qualche tempo dopo, quando anch’io avevo lasciato la sartoria e avevo

cominciato a fare il panettiere in un piccolo panificio cui i miei fratelli maggiori col sostegno di

mia madre avevano dato vita.

Era di carnevale, quello del 1951, ed ero andato a ballare alla sala più grande ed importante

del paese, il cinema Carassinu. Allora per i ragazzi che non avessero sorelle o cugine non

c’erano molte possibilità di ballare, perché le ragazze che avevano il permesso dai genitori di

andare nelle sale da ballo erano pochine di fronte alla moltitudine dei ragazzi ai quali non

occorreva alcun permesso. Chi aveva sorelle o cugine presenti, ballava con queste o con le loro

amiche. Gli altri si dovevano disputare le poche altre ragazze presenti, le quali, solitamente

addossate ad una parete della sala si vedevano sfilare le decine di pretendenti che ritualmente

chiedevano: “A ballas?” Nove volte su dieci, le invitate sussiegose rispondevano: “Impignada” ,

anche se impegnate non lo erano affatto.

C’erano serate in cui non si riusciva a fare un ballo con una ragazza, sopratutto se si era

molto giovani, come lo ero io allora, che avevo 17 anni. E allora si ballava in un angolo tra

ragazzi, in attesa del colpo fortunato. Altrimenti, se la frustrazione provocata dai numerosi rifiuti

era tanta, si ritornava mogi mogi a casa. Scelta che per me era diventata ormai abituale.

Stavo giusto per ritornare a casa, quando vidi Natalina, in un angolo della sala a conversare

con delle amiche.

Era splendida. Aveva, come quasi tutte, la lunga gonna nera plissettata della festa, che le

dava uno slancio particolare e sottolineava la sua eleganza e un golfino arancione scuro, sul

quale pendeva una collanina di perle sicuramente finte. I capelli li aveva tirati all’indietro e legati

in “su mogno”.

Non ero per niente sicuro che avrebbe accettato il mio invito, anche se eravamo stati

colleghi: la sua età la rendeva ragazza da marito. E in sala c’erano tanti giovani, belli, aitanti, alle

attenzioni dei quali certo sarebbe stata più sensibile, anche perché allora le sale da ballo erano tra

le non molte occasioni d’incontro fra giovani, che vi potevano conoscere la futura compagna di

vita. E io non ero che un ragazzino e per di più afflitto da mille complessi.

E invece accettò subito, tutta contenta di rivedermi.

Iniziammo a ballare e lei cominciò subito col chiedere notizie dei vecchi colleghi, del mio

nuovo lavoro. Queste richieste ebbero il potere di sbloccarmi un po’, di allentare i morsi della

mia timidezza, di ricreare il clima di familiarità della sartoria. Rispondevo in fretta, cercando di

mostrare una disinvoltura che non avevo, di apparire brillante e simpatico. Lei mi ascoltava, con

la testa leggermente reclinata come al solito ed il sorriso che le scopriva i denti bianchissimi.

Facemmo così due o tre balli. Cicciu Carassinu, gestore della sala, ad ogni ballo, ricordava

col megafono il dovere di recarsi al buffet: “Signori, abbuffé ”, diceva con perentorietà col suo

francese bagnato in Riu Mannu.

Ritenevo che Natalina avesse adempiuto abbondantemente ai suoi doveri di collega e la

invitai al buffet per ringraziarla e accomiatarmi. Anche perché avevo visto dei giovani che si

avvicinavano per invitarla e non volevo approfittare della sua gentilezza. E invece, con mia

sorpresa, dopo aver rifiutato l’invito di due o tre pretendenti, declinando anche il mio invito al

buffet, mi chiese di continuare a ballare.

Ero consapevole del mio privilegio e del rischio, appena attenuato dalla vastità della sala e

dalla folla di ballerini che l’aveva invasa, cui si esponeva Natalina. Erano tempi, quelli, in cui i

rapporti tra i sessi erano assai ardui: fermarsi a chiacchierare con una ragazza per la strada o

trattenersi con lei in luogo pubblico o fare in una sala più di due giri di ballo, se non si era

parenti stretti, esponeva la ragazza al pettegolezzo malevolo, capace di creare grave nocumento

alla sua reputazione.

La fisarmonica attaccò Besame mucho. Cessammo di parlare. Io avvertii un leggerissimo

moto di avvicinamento del suo corpo al mio, quasi un impercettibile abbandono. La sua testa

sovrastava la mia di 6-7 centimetri. Ora sentivo chiaramente il tenue profumo di lavanda che

emanava dal suo corpo. La conoscevo questa lavanda, perché era in vendita da Moccolo. Era la

Lavanda Coldinava. Pur essendomi familiare quel profumo quella sera assunse per me un rilievo

particolare, perché contribuì a farmi calare in una specie di trance, in cui la musica non era ormai

più che un’eco lontana…. Quasi inavvertitamente, m’ero stretto al corpo di Natalina. Ora ne

sentivo il palpito del cuore; avvertivo, anima e corpo in tumulto, il turgore dei piccoli seni,

sfioravo le sue con le mie gambe...

La sala, gli altri, il mondo cessarono di esistere. Ero ubriaco di quel profumo,di quel corpo

flessuoso che si muoveva armonicamente col mio, di quel respiro che cercavo di cogliere con la

mia bocca.

Ricordo, come in sogno, le note della Cumparsita, di A Media Lux, Verde Luna, Violino

Tzigano.

Io ballavo appassionatamente, ballavo, sperando solo che non si rompesse l’incanto, che

non cessasse il sogno. Tenevo la sua soffice, delicata mano nella mia e questo contatto, questo

possesso mi inebriava.

Non so quanti balli facemmo quella notte in silenzio. Tanti.

Alla fine, quasi riscuotendosi, Natalina, allontanandomi dolcemente da sé, mi fece

recuperare il senso della realtà. Era cessato l’ennesimo ballo. La invitai al buffet.

Questa volta accettò. Prese solo due caramelle. Poi, mentre tre o quattro giovani la

assediavano chiedendole il ballo successivo, ci salutammo con la solita familiare cortesia. Lei

sembrava indifferente, solo un lieve rossore sul viso e una luce che mi parve diversa nei suoi

occhi. Ma le mie mani, le mie gambe tremavano.

Me n’andai a casa. Avevo ancora sulla giacca il suo profumo. Ero ancora stordito. Non

riuscii a prendere sonno.

L’indomani, dopo il lavoro, passai davanti a casa sua, sperando di vederla affacciata alla

porta. Non ebbi fortuna come non la ebbi le tante altre volte che passai nella sua strada. Mi recai

nella sala da ballo per tutte le altre sere che durò quel carnevale. Inutilmente.

Dopo qualche tempo seppi ch’era partita in Francia, dove si trovava già un fratello che le

aveva trovato un lavoro, non so quale. Più tardi seppi che s’era sposata.

Passò il tempo.

Nei primi anni ‘60, dopo una decina d’anni da quando io me n’ero andato, Moccolo s’era

deciso a chiudere bottega. I clienti l’avevano abbandonato del tutto. Per di più era andata male

anche l’attività scarsa del negozio, che l’aveva indotto al fallimento, con lunghi e penosi

strascichi giudiziari.

Benché fosse ormai avanti negli anni (più vicino ai cinquanta che ai quaranta), dovette

rassegnarsi a cercare un nuovo lavoro. La famiglia era numerosa e altre fonti di reddito non ce

n’erano. Aveva un compare a Sassari che faceva l’avvocato, un avvocato di grido, che l’aveva

difeso dall’accusa di bancarotta succeduta al fallimento e che riuscì a trovargli un posticino in un

ente pubblico.

Occorreva però avere un titolo minimo di studio, che Moccolo aveva assicurato di avere e

che invece, al momento di dover produrne il certificato, risultò non avere. Aveva solo la licenza

elementare. Si rivolse a me perché lo aiutassi ad affrontare gli esami di licenza media. Per due o

tre mesi mi recai quotidianamente da lui per impartirgli lezioni di italiano e di francese. Il

risultato di tanta fatica mia e sua fu condensato alla vigilia dell’esame sulle palme delle sue

mani, a mo’ di promemoria per il momento delle interrogazioni: sulla destra c’era il francese:

mon ton son, notre, votre, leur. Sulla sinistra quanto gli era rimasto delle lunghe lezioni di

italiano: se avessi...., farei; e di geografia: Franc.:Parigi; Germ.:Bonn; Spa.:Madr; Ingh.:Lond.

Ottenne la sospirata licenza, non so come, o anzi: lo immagino. Ovviamente per il periodo

che gli avevo fatto da insegnante non sentì alcun bisogno nemmeno di ringraziarmi. Con me

come con tutti quelli cui s’era per un motivo o per l’altro imbattuto nella vita, riteneva d’avere

maturato crediti imperituri di riconoscenza solo per la fortuna d’averlo conosciuto.

Per vent’anni circa, sino alla pensione, rimase dietro la scrivania d’un ufficio, con la stessa

sicumera con la quale era stato assiso sullo scranno della sartoria, facendo credere a tutti d’avere

chissà quale potere.

Se n’è andato una quindicina d’anni fa, preceduto dalla moglie che era ancora

relativamente giovane.

Anche Nestorio ha avuto morte prematura, una quindicina d’anni fa.

L’anno scorso, dopo 48 anni, ho rivisto Natalina.

Ero andato in cimitero per rendere il consueto omaggio alla tomba dei miei genitori.

Quando uscii, vidi un capannello formato da quattro persone. Non ci feci caso e feci per

dirigermi alla mia macchina. Mi sentii chiamare: un’insegnante, ex mia collega, mi aveva

riconosciuto e voleva salutarmi.

Mi avvicinai, salutai la collega e per cortesia mi accinsi anche a salutare le altre tre

persone. Una di queste, sorrideva dolcemente, con quella grazia malinconica che io non avevo

mai dimenticato. I capelli tutti bianchi, il corpo appesantito da qualche chilo di troppo e dagli

anni, infagottato in un abito decoroso ma modesto, l’assoluta mancanza di trucco o di

ricercatezza, le rughe evidenti non avevano tolto nulla alla forza di quel sorriso. L’unica cosa

rimasta come allora.

Mi chiese se la stavo riconoscendo. Commosso, avrei voluto abbracciarla. Non lo feci e il

rammarico di non averlo fatto mi punge e tanto ancora.

Mi disse che era venuta per il funerale d’una sorella e che sarebbe ripartita quella sera

stessa per la Francia. Mi disse anche che aveva nipoti ormai grandi, sposati, e addirittura era

bisnonna da tempo.

La presenza delle altre tre donne, la confusione che si impadronì di me, mi impedì di dire

tante cose….

Ma ritornato a casa sentii che mi era stata strappata qualcosa cui ero rimasto attaccato negli

anni: l’immagine di una giovane donna nel fiore della giovinezza che danzava senza fine con me

in una sala da ballo del mio paese. E come 48 anni prima, ma con diverso sentimento, e non solo

per una notte, quell’immagine e quello strappo m’impedirono di dormire.

Michelangelo Delogu