Nenardheddu

Il fatto accadde la domenica delle Palme del 1939.

L’anno precedente mio padre, assieme ad altri due massai del paese, Tiu Austhinanghelu e

Tiu Giuongiagu, aveva preso in affitto dai fratelli Carente una vasta tanca di oltre trenta ettari di

buona terra in agro di Uri, ad Abbalua.

La tanca era lontana, circa due ore a cavallo, e costava tanto arrivarci, perché il sentiero si

snodava tra saliscendi sassosi, alcuni anche ripidi che costringevano a rallentare il passo. E

infatti non avevano dovuto faticare per ottenerla: non tutti i massai erano disposti ad uscire alle 5

del mattino, che soprattutto al tempo della semina era ancora notte fonda, per poter utilizzare poi

tutta la luce del giorno nel lavoro. Ma mio padre, che per due anni consecutivi, contro il parere di

tutti, aveva seminato a Baddigios, in un nostro arido e pietroso sughereto di circa quattro ettari,

senza ricavarci niente e rimettendoci anche il seme, aveva bisogno di rifarsi e così aveva

convinto i due soci a tentare l’impresa. Con Tiu Austhinanghelu non era stato difficile

accordarsi. Era questi un uomo energico e segaligno, allora sulla cinquantina ma già con la bocca

priva di denti atteggiata perpetuamente a un sorriso che a chi non lo conosceva bene appariva

canzonatorio e invece era solo quello di un uomo sempre pronto a trovare in tutto quello che lo

circondava nuovi motivi per alimentare il suo naturale buonumore e la voglia inesauribile di

scherzare. Non aveva fama di grande lavoratore, ma in compenso lavorare con lui era quasi uno

spasso e non ci si annoiava mai. Le ragioni addotte da mio padre gli sembravano buone e poi a

dire il vero, non perdeva il sonno, come faceva invece mio padre, a preoccuparsi delle difficoltà

che il massaio doveva affrontare tutti i giorni per salvare le uniche ricchezze che lo

distinguevano dalla precarietà dei contadini che andavano a giornata: un giogo di buoi e il buon

nome per ottenere la fiducia dei proprietari terrieri che gli affittavano la terra. La fiducia,

sopratutto, era essenziale. La vita era dura. Non sempre l’andamento dell’annata, dipendente dai

fenomeni atmosferici (pioggia o siccità, neve, grandine), da eventi che se non frequenti non

erano nemmeno rari (invasioni di cavallette) e atteggiamenti umani radicati nell’ambiente (la

sfida tradizionale del pastore che spesso trovava più conveniente far pascolare le sue greggi sul

seminato, anziché sul suo pascolo) consentiva ai massai di avere ricavi superiori alle spese. E

poiché il proprietario terriero non voleva assolutamente far dipendere i suoi proventi da altro se

non dal possesso della terra, la garanzia che l’affittuario pagasse, comunque fosse andata

l’annata, era conditio sine qua non perché il massaio potesse continuare a definirsi tale. Per mio

padre, poi, il pagamento del canone era ineluttabile e da non mettere in discussione. Soleva dire,

con quel tono tra il solenne e il sentenzioso che gli era proprio: dal raccolto dobbiamo prima di

tutto tirar fuori quanto spetta al proprietario della terra; poi dobbiamo togliere la quantità di seme

occorsa da utilizzare l’annata successiva e con quel che avanza, se ne avanza, arrangiarci. Ma

talvolta, quando l’annata non era stata buona, arrangiarci significava cercare di sbarcare il

lunario con i miseri proventi della vigna di Baddigios o dell’oliveto di Pedra Longa, che

garantivano appena di che sfamarci e che solo per questo comunque ci consentivano di essere

considerati dei privilegiati.

Tiu Austhinanghelu non era tipo da mettersi questi problemi, pur avendo motivi più

numerosi dei nostri di metterseli, dal momento che la sua vigna era ancora più piccola della

nostra e l’oliveto, più lontano e più avaro. Affrontava la vita con quel fatalismo leggero che

consente a tanti di andare avanti soffrendo il meno possibile per le strettezze in cui si è costretti a

vivere, rassegnati senza traumi alla propria sorte. Mio padre, invece, forse per l’influsso

esercitato dall’inquietudine di mia madre, che nella casa paterna aveva visto giorni migliori, non

si rassegnava e si adoperava in tutti i modi per migliorare la propria condizione.

Tiu Austhinanghelu aveva accettato, quindi, senza pensarci troppo, fidandosi delle buone

ragioni di mio padre, nel quale nutriva grande fiducia.

Tiu Giuongiagu, invece, aveva mosso le sue obiezioni. Era il più giovane dei tre: era allora

sulla quarantina, anche se, per il suo fare posato e riflessivo, sempre controllato, appariva più

anziano. Avrebbe preferito un terreno più vicino al paese, per non sprecare parte della giornata

nel viaggio di andata e ritorno. Alla fine, però aveva ceduto. Abitava dirimpetto a noi, in una via

stretta, allora alla periferia del paese, e per questo vicina all’abbeveratoio, che era il luogo

dell’appuntamento mattutino dei tre soci quando si recavano ad Abbalua. Chiusi nei loro

cappottinu d’orbace nero, una volta provveduto ad abbeverare i cavalli, si avviavano taciturni nel

mattino antelucano. Mio padre si portava in groppa mio fratello Antonio, allora quattordicenne,

Tiu Austhinanghelu il figlio Giuannantoni, sedicenne, e Tiu Giuongiagu, Nenardheddhu di

appena dieci anni.

Nenardheddhu non era figlio, ma figliastro di Tiu Giuongiagu, che ne aveva sposato la

madre, Tia Pedruzza, quando lui aveva già sei anni. Era stato un matrimonio combinato proprio

da Tiu Austhinanghelu e dalla moglie. Tia Pedruzza era infatti la cognata, vedova del suo povero

fratello minore, andatosene dopo una febbre che il medico del paese, babbai Olia, non era

riuscito a debellare. Dolore al costato, si disse. Del resto le diagnosi popolari, molte post mortem,

perchè raramente si chiamava il medico e quando lo si chiamava era solitamente troppo tardi,

non erano molto numerose e prendevano nome dal sintomo più appariscente: dolore al costato

(che includeva tutto il gruppo di malattie all’apparato respiratorio: polmonite, pleurite, bronchite,

eccetera, sino alla TBC); dolore alla pancia per tutte le malattie all’apparto gastro-intestinale. Le

morti improvvise per infarto o per ictus, erano tutte dovute a paralisi o a fattura.

Tiu Giuongiagu, che prima di conoscere Tia Pedruzza aveva condotto una vita di solitario

scapolone, insensibile alle sollecitazioni delle sorelle che lo volevano accasare, si era ben presto

affezionato a quel suo figliastro così vivace, che gli saltava sulle ginocchia, a sera, quando di

ritorno dal lavoro si sedeva accanto al camino, a filare con la palma nana la fune.

Nenardheddhu gli aveva fatto scoprire un aspetto insospettato di se stesso: la tenerezza, di

cui quasi si vergognava.

All’età di 8 anni, dopo la terza elementare, aveva cominciato a portarselo dietro in

campagna, sia d’estate che nei periodi di vacanza scolastica. Ma a differenza di tanti, voleva che

Nenardheddhu concludesse gli studi, che allora avevano come meta valicabile solo da pochissimi

fortunati da contare sulle dita di una mano, la quinta elementare. Per questo era raro che lo

distogliesse dalla scuola in periodi in cui questa era aperta. Del resto, Nenardheddhu, meritava la

sua fiducia. A scuola era diligente e Tiu Giuongiagu era tanto fiero che riuscisse a decifrare

quegli strani segni sul libro e a trasformarli in piacevoli raccontini che lui, analfabeta come la

maggior parte di quelli della sua generazione, non riusciva a decifrare.

Ma quella domenica delle Palme era giorno di festa e quindi non c’era scuola. Giorno di

festa segnalata. Anche i lavori nei campi si fermavano. Solo c’era da procurare il mangime per i

buoi, che si lasciavano nei luoghi di lavoro, e condurli all’abbeveratoio per dissetarsi: non se ne

poteva fare a meno. Questi adempimenti, di solito, erano affidati ai ragazzi. Per di più

quell’inverno era stato particolarmente siccitoso. Ad esso aveva fatto seguito un inizio di

primavera con scarsissime piogge. Perciò pur essendo ancora ai primi d’aprile, la terra era già

arida: gli stentati steli di borragine e persino il trifoglio già cominciavano a perdere il verde

intenso trascolorando nel giallino. Solo le ginestre col giallo festoso e caldo dei loro fiori, gli

asfodeli col rosa pallido dei loro capolini denunciavano la stagione. I buoi, che dovevano

lavorare sodo, avevano bisogno di integrare il magro nutrimento che si potevano procurare

direttamente, con paglia e avena.

Mio padre aveva affidato a mio fratello Antonio il compito di portare con due bisacce le

provviste ai nostri buoi. Tiu Austhinanghelu aveva delegato suo figlio Giuannantoni e Tiu

Giuongiagu sarebbe dovuto andare di persona. Ma Nenardeddhu aveva fatto di tutto per

convincere il patrigno,che quasi avesse qualche brutto presentimento, faceva resistenza, a

lasciarlo andare al suo posto: c’era il cugino Giunnantoni e Antonio, che erano già grandi: di che

cosa avrebbe dovuto avere paura? E poi, tutti i ragazzi della sua età andavano già in campagna,

anche da soli quando occorreva. Alla fine, Tiu Giuongiagu aveva ceduto.

Capiva che per Nenardheddhu quella era una sorta d’iniziazione al lavoro che l’attendeva

terminate le scuole e non aveva voluto contrariarlo più di tanto e dargli un dispiacere. Del resto

quella strada l’aveva fatta più d’una volta con lui; i due ragazzi che l’accompagnavano erano

affidabili e avevano dato ripetutamente testimonianza della loro maturità: erano entrambi dall’età

del suo Nenardheddhu che affrontavano il difficile lavoro del massaio. La moglie, come al solito,

non aveva detto nulla, ma aveva seguito con apprensione il dialogo tra il marito e il figlio e in

cuor suo aveva sperato tanto che Tiu Giuongiagu resistesse alle richieste del ragazzo e quando

alla fine il marito aveva ceduto, una sorta di attivismo insolito la invase: andava dalla stanza da

letto alla cucina, che faceva anche da soggiorno, ripulendo con lo straccio i mobili che aveva

appena finito di pulire, rassettando ciò che era già stato rassettato. Il marito, che la conosceva

bene e sapeva l’origine e la causa della sua agitazione, anche per tacitare e scacciare i brutti

pensieri che gli ronzavano per la testa, ricordò al ragazzo l’impegno di essere di ritorno prima

della messa di mezzogiorno, alla quale avrebbe partecipato anche per benedire le treccine di

palma nana che sarebbero state poi conservate in casa sino all’anno successivo. A dire il vero,

l’impegno a non mancare alla messa delle Palme era stato chiesto da mia madre, che nel far

rispettare a noi figli gli obblighi religiosi era assolutamente intransigente. Perciò era stato deciso

che i ragazzi partissero appena fatto giorno: calcolando due ore per l’andata, due per il ritorno ed

un’ora per far mangiare i buoi e farli dissetare, alle undici e mezzo i ragazzi sarebbero stati di

nuovo a casa, giusto in tempo per prepararsi e recarsi in chiesa per la messa solenne.

Puntuali i tre ragazzi, ciascuno in sella al proprio cavallo, si ritrovarono che stava

albeggiando, a S’Abbadorzu, la fontana-abbeveratorio che era il punto d’incontro dei loro

genitori quando si recavano ad Abbalua. Ciascuno aveva una bisaccia grande, di tela rustica,

piena di paglia, ed una più piccola, piena di avena.

Mio fratello montava una cavalla bianca, oramai avanti negli anni, che aveva l’abitudine di

camminare a scatti e per questo la si poteva distinguere di lontano, anche quando non la si

potesse riconoscere per altro segno. Giuannantoni una puledra nera, pacifica, che considerava

sua, dal momento che il padre aveva un’altra cavalla, madre della puledra. E Nenardheddhu

l’unico cavallo di famiglia, un baio mite, al quale il ragazzo s’era tanto affezionato che gli

parlava persino, soprattutto quando non c’era nessuno che lo osservasse.

Si avviarono per il sentiero stretto e sassoso che conoscevano bene. La rugiada del mattino

esaltava il profumo di mentastro e di timo e i ragazzi aspiravano a pieni polmoni quest’aria così

vivificante. Erano contenti per tanti motivi. In primo luogo perché erano assieme, senza i

rispettivi genitori: e questo dava loro un senso di grande libertà, quasi di euforia. Al ritorno,

quando i cavalli non sarebbero stati gravati di alcuna soma, avrebbero potuto anche correre, in

qualche tratto agevole che pure non mancava nel sentiero. Soprattutto Giuannantoni smaniava

segretamente all’idea di far vedere al cuginetto, da cui si sentiva tanto ammirato, e da mio

fratello, le capacità sue e della sua cavalla. Poi erano contenti perché era giorno di festa e non

avrebbero lavorato. Al ritorno, in chiesa avrebbero portato le loro treccine di palma, le

“armoniche”, le “spade” che avevano preparato con le foglie di palma nelle serate precedenti, le

avrebbero confrontate con quelle dei loro amici: quasi una rassegna di abilità e creatività. Li

aspettava poi il pranzo dei giorni segnalati: i cicciones, senza la carne e le casadinas però, ché si

era pur sempre ancora in quaresima.

Nenardheddhu era il più contento, naturalmente. Per l’incarico ricevuto,si sentiva

all’altezza quasi dei suoi compagni. Gli sembrava così di lasciarsi dietro le spalle l’infanzia.

Quello che tante volte era stato il suo sogno e che era oggetto dei suoi giochi, quando a

cavalcioni di una lunga canna immaginava di cavalcare il suo baio, ora si realizzava. Poteva

avere per un’intera mattinata il suo amato cavallo,andare tanto lontano dal paese, svolgere

compiti importanti, da uomo. Certo aveva anche dei timori, che non voleva svelare nemmeno a

se stesso. In particolare temeva di non essere in grado di superare la paura delle possibili

incornate dei buoi, quando per portarli al fiume per farli abbeverare, avrebbe dovuto togliere loro

le pastoie e, di ritorno, rimetterle. Il patrigno gli aveva insegnato tante volte come fare e aveva

sorriso dei suoi timori. Ma Nenardheddhu, vicino a quei mastodonti, non sempre riusciva a

vincere la paura: i buoi, per scacciare le mosche che li molestavano, giravano spesso la testa di

scatto ed egli aveva una paura matta che lo infilzassero con le corna.

Sul sentiero camminava dietro il cugino e precedeva mio fratello, così come gli aveva

raccomandato il patrigno. Ben presto si lasciarono alle spalle il paese e presero la discesa per

Iventi, dove il sentiero s’inoltrava fra uliveti e vigne. Era solitamente un tratto abbastanza

affollato di cavalli e di uomini, ma quella mattina di festa era sgombro e i tre ragazzi andavano

abbastanza velocemente, lasciando anche Iventi, le sue vigne e i suoi orti e salendo sul costone

brullo di Cucccuros de Porru e arrivando all’abbeveratoio di Sos Cantareddos, dove, come di

solito facevano i loro genitori, si fermarono per far dissetare i cavalli. Da qui la vista spaziava

sulla valle del Cuga, quasi tutta coltivata ad ortaggi per la presenza del fiume, sul colle di San

Leonardo con la sua rustica chiesetta quattrocentesca. Da li il sentiero non era più costeggiato dai

muretti a secco, ma si apriva in aperta campagna, ad anni alterni coltivata a frumento e a legumi.

Le campagne di Badde Laros erano molto apprezzate per la loro fertilità ed erano contigue a

quelle di Sa Pala e sa Pedra che, come lasciava intendere il toponimo, erano invece brulle e

pietrose, e per questo erano di solito lasciate ai pastori che vi pascolavano le loro greggi. Anche

Su Prammittazzu e Caparreddu erano punteggiate di pinnette, segno inequivocabile della

presenza dei pastori, che allora in questo tipo di arcaica costruzione circolare in massi grezzi di

tufo alta poco più di un metro e mezzo, sormontata da un tronco di cono formato da frasche,

trascorrevano le ore libere dal lavoro o vi si rifugiavano durante le intemperie.

Apparve alla fine Abbalua e il tancato che l’anno precedente era stato da mio padre e dai

suoi due soci coltivato a grano, ed ora, per osservare la necessaria rotazione agraria, stava per

essere dissodato e preparato per l’orto: a casa mia già si favoleggiava dell’abbondanza di meloni

ed angurie che avrebbe prodotto grazie alla vicinanza del fiume. Mia madre aveva fatto già i suoi

progetti: dalla vendita di meloni, angurie e pomodori avrebbe rifatto il pavimento alla cucina,

allora in lastricato di trachite , e nel cortile avrebbe costruito un gabinetto tutto nuovo, dotandolo

dell’acqua corrente e del lavandino.

Appena arrivati, i tre ragazzi raggiunsero i sei buoi e svuotarono davanti a ciascuno di loro

la porzione che gli spettava di paglia ed avena, mescolando ben bene l’una all’altra, in modo che

i buoi per poter mangiare il più gradito cereale, dovessero mangiare anche la paglia. Si accinsero

quindi ad accompagnare gli animali al fiume per l’abbeverata. Per questo li liberarono dalle

pastoie. Giuannanthoni si avvide della titubanza del cuginetto nell’avvicinarsi ai suoi buoi e

motteggiandolo, lo spinse in là e provvide senza indugio: aveva fretta di ritornare in paese e non

poteva soffrire ritardi.

Similmente si comportò al ritorno dal fiume, quando si trattò di rimettere le pastoie: mise

da parte Nenardheddhu, senza complimenti, e sistemò i buoi.Non avevano perduto più di tre

quarti d’ora. Erano pronti a partire. Montarono quasi nello stesso istante a cavallo.

Nenardheddhu, come aveva visto fare ai suoi due compagni più grandi, appoggiò le mani sul

basto, che raggiungeva a malapena, e con un balzo felino montò anch’egli a cavallo. Forse il

fatto d’essere riuscito nella non facile impresa, unito al desiderio di far dimenticare ai suoi due

compagni la titubanza che aveva mostrato davanti ai buoi al momento di liberarli dalle pastoie,

lo spinse a dar di sprone, in maniera eccessivamente ruvida, al cavallo. Il quale, quasi colto di

sorpresa da un trattamento insolito, si lanciò in una corsa sfrenata, quando Nenardheddhu aveva

avuto appena il tempo di sistemare il solo piede sinistro nella staffa. Il cavallo, ormai senza

controllo, percorso un centinaio di metri, giunto nei pressi d’un macchione di cisto, lo scartò

d’improvviso, facendo perdere al ragazzo l’equilibrio. Il piede sinistro, infilato nella staffa, lo

trattenne pencolante, mentre il cavallo terrorizzato da quel corpo che penzolante si abbatteva sul

suo fianco, continuava la sua folle corsa. Mio fratello e Giuannanthoni, ad una voce, impietriti,

gridarono: noo, noo! E mentre mio fratello si fermava mettendosi le mani sugli occhi per

scacciare la visione, Giuannanthoni inseguiva il baio dello zio, che terrorizzato continuava a

correre, a correre trascinando il corpo del povero ragazzo. Aveva superato il tancato, che essendo

stato coltivato l’anno precedente era abbastanza pulito e si era inoltrato in un pascolo brullo e

sassoso, coperto di asfodeli, di macchie di cisto e di lentischio, di palme nane. Su questo campo,

sui sassi appuntiti, sui cardi selvatici venne trascinato il corpo di Nenardheddhu in una corsa

pazza che sembrava non dovesse finire mai. Non si fermò nemmeno davanti al muretto a secco

che delimitava il tancato: lo superò d’un balzo e forse quel muretto, oltre a straziargli il viso,

diede il colpo di grazia al ragazzo. In quel muretto si ruppe finalmente anche la scarpa che

tratteneva Nenardeddu alla staffa e il suo corpo ormai inerte andò a finire su un macchione di

lentischio.

Quando sopraggiunse Giuannanthoni, il corpo di Nenardheddhu era prono, riverso sul

macchione, mentre il baio s’era fermato poco lontano. Dominando a fatica l’impulso a fuggire,

Giuannantoni si avvicinò al cugino, lo chiamò con la voce tremante di dolore e di spavento, non

ottenendo nessuna risposta; lo chiamò ancora, ripetutamente, quasi implorante e finalmente si

risolse con le mani che gli tremavano e gli occhi che cercavano di non guardare a girare il corpo

del ragazzo per vederlo in faccia. Ma lo spettacolo che vide non l’avrebbe più dimenticato: un

fiotto di sangue, non più trattenuto dalla macchia di lentischio e dal terriccio, proruppe dal viso

dilaniato e irriconoscibile. Giuannantoni si sentì mancare e non riuscì a trattenere più l’impulso a

fuggire. Raggiunse mio fratello che terrorizzato aveva seguito a distanza la scena. I due ragazzi

si abbracciarono, quasi a volersi incoraggiare e consolare a vicenda e così abbracciati rimasero

per un tempo interminabile. Alla fine si riscossero, tornarono alla realtà. Si ricordarono che non

molto lontano, oltre il fiume, pascolava le sue pecore un pastore, che entrambi conoscevano. Vi

si recarono. Il pastore lasciòimmediatamente il lavoro per raggiungere coi due ragazzi il luogo

della disgrazia. E mentre i ragazzi se ne stavano ad una distanza d’una ventina di metri, si

avvicinò all’infortunato. Gli bastò poco per rendersi conto che non c’era più nulla da fare. Si

offrì di di fare compagnia a Giuannantoni a far la guardia al corpo del morto, mentre ordinò a

mio fratello di avviarsi subito in paese per recare la notizia ai genitori di Nenardheddhu. Mio

fratello partì di corsa quasi a voler fuggire un’insopportabile angoscia che s’era impadronita di

lui.

Quando mio padre e mia madre lo videro entrare in casa, capirono che qualcosa di molto

grave era successo. Non so come, lo capii anch’io, che avevo appena 4 anni. Mio fratello ebbe

appena il tempo di dire: Nenardheddhu....

Schizzai fuori casa, prima che qualcuno potesse trattenermi, e irruppi nella casa di fronte,

dove Tiu Giuongiagu e Tia Petruzza aspettavano e gridai:

“Nenardheddhu è morthu!!”

Michelangelo Delogu