Il caso di Lorenzo
Di RAFFAELLA COLOMBO
Presento qui di seguito il testo dell’intervento di Raffaella Colombo alla seduta del 24 novembre 1995 del seminario della Scuola Pratica di Psicopatologia di Studium Cartello di Milano.
Il caso di Lorenzo
Per quanto concerne la seconda questione, il bambino, quando inizia a parlare – normalmente e con
abbondanza entro i tre anni – costruisce delle frasi: soggetto-verbo-predicato. Questa constatazione
dovrebbe essere più che sufficiente per mostrare che il bambino pensa. [1] Ma finché il bambino
non dice: «Io ho pensato questo...», l’adulto – quando le cose vanno bene – lo tratta con
accondiscendenza. Il momento in cui il bambino viene attaccato nel suo pensiero è il momento in
cui formula una frase, non quando dice una parola. Ciò che avviene prima di questo momento è
nell’ordine della psicopatologia precoce, che fin dall’inizio abbiamo individuato come quella classe
psicopatologica in cui non c’è il momento della malattia: nella psicopatologia precoce vi è patologia
senza pensiero ammalato. In questo caso l’atto patogeno dell’altro è avvenuto in un momento in cui
i moti non erano ancora costituiti completamente ossia nel momento in cui il bambino – nei primi
due anni di vita – riceve la legge, ma non la elabora ancora. L’inizio della elaborazione è l’inizio del
pensiero attivo e non coincide con la nascita né con l’inizio del rapporto. C’è un primo tempo, che
abbiamo chiamato «tempo passivo», in cui il bambino, pur essendo in una posizione attiva, riceve
dall’altro. È il momento in cui il pensiero è corpo e il corpo è pensiero.
Lorenzo, tre anni, ha smesso di parlare a due anni e pochi mesi; [2] è un bambino che cammina e si
rivolge ai genitori senza emettere suono. Sembra muto e non si muove normalmente come un
bambino a tre anni in un luogo chiuso aggirando gli ostacoli: quando batte contro uno spigolo si
lamenta e va dalla mamma, non la guarda, le tocca la mano e poi si allontana. Il papà cerca di
prenderlo e lui lo respinge. Poi sembra che voglia qualcosa, si avvicina alla borsa della madre, che
capisce che vuole il biberon. Non mi guarda e non si avvicina a me, che sono seduta.
Ho visto il bambino quell’unica volta, mentre in seguito ho continuato a ricevere i genitori. Ora
Lorenzo frequenta la scuola materna e inizia ad avvicinarsi ai compagni, aderisce alle attività
proposte dalla maestra e ricomincia a parlare,
I genitori imputano il blocco, avvenuto nell’ottobre precedente, a una loro assenza di quindici
giorni, durante la quale Lorenzo è stato affidato ai nonni con i quali, del resto, si è trovato bene. Da
allora il bambino ha smesso di parlare del tutto, evita in particolare la madre, piange, fa capricci,
non vuole coricarsi la sera, non gioca più, lancia oggetti, non vuol mangiare: si oppone. I genitori
riconoscono che da allora in poi si sono preoccupati non perché giudicassero l’agire, offeso e
risentito di Lorenzo, un capriccio, quanto piuttosto incapacità: «Il bambino non è più capace di fare
quello che faceva prima...». Per questo motivo, da Natale in poi, hanno sistematicamente iniziato a
insegnargli le cose. Nell’unica occasione in cui li ho visti insieme notavo infatti che il bambino non
faceva un passo senza che uno dei genitori spiegasse come fare. [3] A questo bambino, che dopo il
rientro della mamma non l’aveva immediatamente abbracciata per farle capire che non era stato
contento di questa assenza e che aveva prolungato il disappunto iniziale passando dal capriccio
all’opposizione, è stato impedito – dopo il momento della vendetta – di riprendere a muoversi come
si muoveva prima. E così, nel rapporto, tutto è cambiato. Quando sono venuti da me, il bambino
balbettava e si era ridotto ormai a pronunciare solo tre o quattro parole, con pause interne alla parola
stessa: era un bambino che temeva di chiedere.
I genitori hanno aderito al lavoro proposto, di ripresa del loro modo di agire, dopo che avevo notato
che i loro interventi nei confronti del bambino, di fatto erano diventati tutti interventi di
insegnamento. Una certa ripresa della parola è avvenuta quando i genitori sono stati in grado di
riacquistare la capacità di astenersi da questi interventi, avendo dato credito al bambino – che fino a
quel momento era giudicato inaffidabile – della sua capacità di rapportarsi e di muoversi. In questo
«corso di insegnamento speciale» che i suoi genitori avevano approntato, niente era più a portata di
mano e doveva chiedere tutto. Ma questo chiedere non equivale a domandare: è chiedere il
permesso. Questo è un caso di malattia, ma avvenuto così precocemente che potrebbe diventare
psicopatologia precoce. [4]
NOTE AL TESTO
[1] Iniziare a parlare vuol dire iniziare a costruire frasi: non dire parole o la cosiddetta «parola-frase». La nostra
unità minima è la frase, non il «significante».
[2] A quell’età Lorenzo costruiva le prime frasi, mangiava da solo, giocava con il fratello maggiore di due anni, cioè
si muoveva come un bambino di due anni. I genitori segnalano il problema alla pediatra più o meno otto mesi
dopo la crisi. Io vedo i genitori con il bambino nel giugno del 1995.
[3] GIACOMO B. CONTRI osserva che è esattamente come l’educazione sessuale nelle scuole: si insegnano le cose
sessuali come se i bambini non le avessero già imparate da piccolini.
[4] La scelta per la psicopatologia precoce e non per la malattia è in relazione al fatto che – a questo bambino che ha la capacità di domandare usando il suo