Non dire falsa testimonianza.

Di Claudia Furlanetto

“Non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20,16)

“Non pronunciare testimonianza falsa contro il tuo prossimo” (Dt 5,20)

“Non dire falsa testimonianza” (Catechismo della Chiesa cattolica)

Carattere giuridico del comandamento.

Come il sesto, anche l’ottavo è un comandamento dal carattere giuridico. Esso acquista il suo senso dall’uso processuale della testimonianza, già emerso commentando i precedenti comandamenti. Parlando del quinto, non uccidere, si era detto che per l’individuazione dell’assassino e la sua imputazione erano necessari non meno di due testimoni. La testimonianza è cruciale in determinati casi e può decidere della vita e della morte di una persona.

“Un solo testimonio non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato questi abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni” (Dt, 19, 15). Testimoniare il falso era così grave che il colpevole era punito con la stessa pena cui sarebbe incorso il malcapitato accusato falsamente.

Il riferimento alla testimonianza era emerso commentando anche il quarto comandamento, quando raccontando di Rut, era stata descritta la scena in cui Booz, l’uomo che la desidera, accerta pubblicamente, ovvero presso la porta della città, alla presenza di testimoni, la rinuncia del parente più prossimo, per la legge del levirato, al riscatto del campo di Noemi e di Rut.

“Intanto Booz venne alla porta della città e vi si sedette. Ed ecco passare colui che aveva il diritto di riscatto e del quale Booz aveva parlato. Booz gli disse ‘Tu, quel tale, vieni e siediti qui!’. Quello si avvicinò e sedette. Poi Booz scelse dieci uomini fra gli anziani della città e disse loro: ‘Sedete qui’. Quelli sedettero”. Booz enuncia l’affare in corso, ovvero il riscatto del campo e di Rut; ma il parente più vicino a Noemi rinuncia all’affare, così Booz può dire: “Voi siete oggi testimoni che io ho acquistato dalle mani di Noemi quanto apparteneva a Elimelech … e che ho anche preso in moglie Rut … Voi ne siete oggi testimoni. Tutto il popolo che si trovava alla porta rispose: ‘Ne siamo testimoni’” (Rt 4, 1- 11).

La testimonianza, quindi, aveva valore giuridico e poteva sancire il possesso di beni e persone. Essa si svolgeva pubblicamente e non a caso il luogo scelto per il suo svolgimento era prossimo alle porte della città.

Ciò rende più chiara la comprensione della traduzione letterale del comandamento dall’ebraico che è: “non prendere la parola in pubblico, davanti al tribunale (’nh), come testimone falso (šeqer)”1.

La testimonianza di qualcuno, a favore o a danno di qualcun altro, è quella parola pubblica che ha effetti giuridici sulla vita di un’altra persona, che si ritrova dopo la testimonianza con diritti e doveri nuovi rispetto a prima. La parola del testimone non è una parola neutra: produce effetti sul ricevente ma anche sul testimone stesso, per l’impegno, il vincolo che quella parola attesta tra sé e l’evento attestato, ovvero tra sé e l’altro di cui si attesta un atto. Per questo motivo ai testimoni di un omicidio è chiesto di partecipare non solo in modo verbale al procedimento capitale verso l’accusato, ma anche di prendere parte attiva all’esecuzione, scagliando la prima pietra. Se il testimone, infatti, è un falso testimone si addossa la gravissima colpa dell’assassinio. Macchiarsi di una colpa di sangue è un fatto molto grave, che non lascia indifferenti i colpevoli, come ha mostrato l’analisi della angoscia dei fratelli di Giuseppe, mai sanata, per la loro aggressione non mortale, nei fatti ma nelle intenzioni, al fratello.

Entrambe le versioni veterotestamentarie del comandamento riportano l’espressione “contro il tuo prossimo”, per ribadire quanto è già intrinseco nel carattere della parola come testimonianza: essa è parola che ha effetti su un’altra persona, sul mio prossimo. Pertanto il riferimento all’altro nell’enunciazione del comandamento precisa meglio il valore della parola come testimonianza, perché la parola, nell’Antico Testamento, non è mai astratta dal rapporto.

Perdita del carattere giuridico del comandamento nel Catechismo della

Chiesa cattolica

Il comandamento nella versione catechistica è enunciato semplicemente con la frase “Non dire falsa testimonianza”. L’abbreviazione del comandamento non è un’innocente semplificazione. L’aver epurato il testo dal riferimento al rapporto con l’altro ha cambiato il senso stesso del comandamento. Tanto più che la parola testimonianza ha nel tempo perduto il suo significato relazionale. Ciò che viene tutelato nel Catechismo non è più la correttezza giuridica del rapporto ma la verità astratta (dal rapporto), eletta a principio morale. La testimonianza perde il carattere giuridico-relazionale che aveva nell’Antico Testamento e dice qualcosa solo in merito alla veridicità della parola, non ai suoi effetti giuridici sulla vita di un’altra persona. Il comandamento vieta allo stesso tempo la bugia, come la menzogna, come la maldicenza. Ne fa una questione di verità, piuttosto che di attenzione al prossimo e alla possibilità di relazioni comunitarie giuste e pacifiche2. Riepilogando, nell’enunciazione del comandamento nella versione catechistica è la falsa testimonianza in sé ad essere condannata, non la falsa testimonianza contro qualcuno, cui solo importa all’antico Legislatore, tanto che potremmo anche aggiungere che il comandamento non vieta di dire falsa testimonianza “a favore” di qualcuno. Nel Catechismo l’accento si sposta dalla testimonianza nel rapporto alla testimonianza come verità assoluta, sciolta dal rapporto. Da comandamento giuridico è divenuto comandamento filosofico, i cui effetti giuridici sono accidentali, non più intrinseci al comandamento stesso. Agostino nell’opera De mendacio si occupa della menzogna, condannandola in tutti i suoi aspetti. Il suo pensiero è profondamente influenzato dalla filosofia platonica, per questa ragione mette in relazione la virtù con la verità. Dire il vero è una virtù.

Ricordo ancora che la nuova redazione del decalogo ad uso del Catechismo cristiano è stata opera anche di Agostino, sebbene non sia pensabile che il cambiamento di senso di questo comandamento, in particolare, sia riconducibile solo al lavoro di un singolo, quanto piuttosto a secoli di lenta e progressiva penetrazione della filosofia greca nella dottrina

cristiana.

L’Antico Testamento non sembra essere preoccupato della verità, ma degli effetti relazionali di ciò che si dice, inclusi gli effetti della verità.

Nell’episodio citato nel commento al settimo comandamento, Giuseppe, quando incontra i suoi fratelli, mente dall’inizio alla fine, recita la parte dello sconosciuto, accusa i fratelli di essere delle spie, sapendo di dire una falsità, allo scopo di poterne mettere alla prova la lealtà. Se fosse la menzogna tout court oggetto del divieto nel comandamento quell’episodio sarebbe deprecabile. Invece non solo non è così, ma anzi Giuseppe contrariamente alla propria ingenuità giovanile che gli rendeva troppo facile essere sincero con i fratelli, ora sa perfettamente di dover dissimulare la propria identità, affinché i fratelli possano dirsi l’un l’altro la scomoda verità. Infatti la sua dissimulazione consente ai fratelli di ammettere in sua presenza, sconosciuto e straniero, la loro colpa di attentatori alla vita di Giuseppe. Questa recita della verità, resa possibile dalla falsità dello spettatore, consente all’intera vicenda del popolo di Israele, dei figli di Giacobbe, di procedere verso un preciso destino. Il mentire di Giuseppe è tutt’altro che deprecato nel racconto dell’Antico Testamento.