Il caso di Eleonora
Di RAFFAELLA COLOMBO
Presento qui di seguito il testo dell’intervento di Raffaella Colombo alla seduta del 24 novembre 1995 del seminario della Scuola Pratica di Psicopatologia di Studium Cartello di Milano.
Il caso di Eleonora
Rispetto alla prima questione, proporrei di considerare che ciò che fa – della crisi – malattia, è quel
disconoscimento, quella negazione dell’errore che abbiamo chiamato «ingenuità».
Eleonora, 12 anni, ha un buon rapporto con la sua pediatra e – sapendo della possibilità di venire a
parlare delle difficoltà che prova – desidera farlo subito. La prima cosa che dice, quando viene, è:
«Ho paura di non svegliarmi più» e, avendo paura di non svegliarsi, non vuole dormire da sola, così
che il padre dorme con lei. Per un mese ha mangiato pochissimo e ha perso 13 chili; piange per un
nonnulla; a scuola è distratta, porta a casa brutti voti; viene castigata spesso. La seconda volta dice
che il padre non ha fiducia in lei. Sa che i suoi genitori non potranno mai essere contenti di lei
perché è riuscita male e insiste su queste parole. Dice di averlo sentito dire soprattutto dal padre, il
quale – quando vede un maschietto – lo vezzeggia e gli insegna a giocare, mentre più volte afferma
di avere sentito che si rammaricava di avere sbagliato tutto con sua figlia, che è viziata. Se avesse
un altro figlio non agirebbe allo stesso modo.
Il non mangiare e l’insonnia rappresentano il passaggio a un’iniziale elaborazione patologica e
coprono in realtà qualcosa d’altro. Quando le chiedo di riprendere a parlare del fatto che lei dorme
con papà, mi dice che non è che non voglia dormire da sola, ma che vuole che la mamma e il papà
non dormano insieme. Ripete: «Non so perché». È riguardo a questo denunciare un’ignoranza che
individuo la presenza dell’errore negato. Quando io, ricordandole il dispiacere per le frasi sentite da
suo padre, oso chiederle: «Ma non sarà perché tu pensi che la mamma e il papà potrebbero fare un
bambino, che non vuoi che dormano insieme?», lei mi dice che ho indovinato. Quindi lei lo sapeva.
Ritengo che la malattia costituisca ancora un momento in cui l’interpretazione (la parola dell’altro
che conclude) è accettata, ossia è accettata la correzione di un errore. Capita in molti casi, infatti,
che l’errore è saputo dal bambino, che però dirà di non sapere perché fa così. Ma si tratta proprio
del bambino che aderisce immediatamente a una soluzione proposta, ossia all’individuazione – da
parte dell’altro – di un errore: una volta detto dall’altro egli lo ammette.
Perché il bambino nega quel pensiero errato? In realtà il pensiero del bambino non era errato: se
mamma e papà dormono assieme potrebbero fare un bambino. La bambina nega di avere avuto
questo pensiero e costruisce delle giustificazioni, fino all’insonnia, per costringere il papà a dormire
con lei. Avrebbe potuto essere la mamma. In questo caso è il papà e c’è un motivo particolare.
L’errore è quello dell’altro, e mi sembra che il pudore del bambino ad ammettere un pensiero che ha
avuto («Se i genitori dormono assieme avranno un altro bambino») stia nel fatto che questo
pensiero, pur corretto, diventa una minaccia: se nascesse un altro bambino e fosse un maschietto a
lei verrebbe definitivamente tolto il rapporto con il padre. È lei stessa che pensa: «Se nascesse un
fratellino il mio papà non si occuperebbe più assolutamente di me». Questa bambina sta
denunciando un errore dell’altro, ma non lo può ammettere perché la soluzione che l’altro ha
trovato al suo errore – un altro bambino – va contro di lei. D’altra parte, lei sa di agire in modo
scorretto nell’imporre a uno dei suoi genitori di dormire con lei quando non è il caso di farlo. Sa di
una propria menzogna.
L’aspetto che configura questo caso come malattia è rappresentato dall’adesione facile, in due-tre
sedute, alla mia risposta e un facile risolversi della situazione.