Titolo specifico del Progetto svolto
dall'Unità di Ricerca
Costruzione della storia e
giuridicizzazione della memoria: strumenti interdisciplinari e vicende
esemplari
Abstract del Progetto
svolto dall'Unità di Ricerca
Punto di partenza della ricerca condotta
dall’unità napoletana è costituito dal problema dell’uso pubblico della storia,
ovvero della selezione degli strumenti e dei modi utilizzabili dagli storici
per lo svolgimento di un’attività in senso lato politica. Attraverso l’analisi
delle più recenti tendenze ed esperienze della cultura giuridica, la ricerca
guarderà alle “ferite della storia” approfondendo aspetti finora lasciati in
ombra. Si cercherà di rispondere a taluni significativi interrogativi: Come
vengono trasmessi e modellati i ricordi? Quanto incidono le deformazioni e le
rielaborazioni culturali sulla memoria storica? In che modo si dipanano –
all’interno di una cultura – i conflitti di memorie? Ovvero come si conciliano
tra loro memorie diverse; ad esempio, quelle dominanti e quelle subalterne? In
definitiva, quali sono gli itinerari percorribili per la costruzione di una
memoria condivisa e quali, invece, quelli da evitare per non incorrere
nell’amnesia sociale e culturale? Fino a che punto i processi costruttivi di
una memoria storica possono incidere sulle decisioni politiche e giuridiche?
Quale equilibrio è possibile trovare tra verità e giustizia? Quale, inoltre,
l’accordo praticabile tra verità e riconciliazione? Ancora: come si può
arrivare ad una storia condivisa in contesti caratterizzati da diversità
etniche, razziali e culturali? E, in ultimo, in che modo si può validamente
misurare una riconciliazione, ovvero il grado di solidarietà, di valori
condivisi, di trasformazione morale e di impegno a superare il passato,
prevenendone un futuro possibile ritorno?
Pertanto, con il proprio
contributo, l’unità napoletana agevolerà la ricerca generale con il
perseguimento di importanti obiettivi. Tra questi il chiarimento delle
opposizioni, delle contraddizioni e delle aporie che si riscontrano all’interno
della teoria e della pratica dei diritti; le possibilità di ricomposizione da
parte del diritto positivo dello strappo sociale, culturale e politico che ogni
grave violazione della giustizia introduce in una comunità. Di conseguenza
l’analisi sarà indirizzata verso le seguenti prospettive: un’antropologia della
memoria nell’esperienza giuridica occidentale, esaminando le due strutture
essenziali della nozione di memoria dell’età intermedia e quella dell’età
moderna; una ricognizione metodologica intorno ai significati plurimi che la
“storia” è andata assumendo nei diversi contesti disciplinari, concentrando
l’attenzione sulla relazione tra storia, verità e giustizia; la reintegrazione
degli ebrei nell’Italia postfascista con l’obiettivo di far luce sul complesso
rapporto che si instaurò tra memoria del giurista e memoria collettiva.
Stato dell'arte
“Quando scoppia una guerra, la prima
vittima è la verità. Le cause del conflitto, le forme in cui si manifesta, i
successi e i rovesci dei differenti eserciti in esso impegnati passano
attraverso lo specchio deformante della propaganda, arma anch’essa legittima
della guerra. Ristabilire la verità è compito degli storici”.
Con queste parole si
inaugurava un’importante iniziativa editoriale agli inizi degli anni sessanta
del ‘900, dedicata al ricordo del secondo conflitto mondiale documentato dalla
memoria fotografica(Caporilli, 1964). Esse sintetizzano con semplicità uno dei
più classici dilemmi sottesi agli studi storici, che costituisce anche il punto
di partenza della ricerca condotta dall’unità napoletana: l’uso pubblico della
storia, ovvero – come si è spesso detto con accenti polemici – la selezione
degli strumenti e dei modi utilizzabili dagli storici per lo svolgimento di
un’attività in senso lato politica (Canfora, 2005).
Si potrebbe dire che dai
tempi di Bloch ad oggi (Bloch, 1969) il dibattito sul tema non si è attutito.
Anzi, la recente pretesa – manifestata tanto da organismi internazionali quanto
da magistrature nazionali – di curare in modo definitivo le ferite lasciate
ancora aperte dalla storia, ha rilanciato la riflessione sul ruolo che la
storia e gli storici assumono all’interno dei processi di pacificazione e di
riconciliazione. E' stata dibattuta la teoria culturale del costruttivismo, secondo
cui la realtà è frutto di un «processo di produzione» realizzato attraverso
«rappresentazioni» (Burke, 2007). La teoria è stata sostenuta con numerosi
autorevoli interventi a proposito sia delle identità individuali (Davis, 1984)
sia delle comunità e delle nazioni(Anderson, 2000). Essi appaiono utili per
comprendere la capacità modellante delle “narrazioni” oppure gli “altrui punti
di vista” (significativa la descrizione dell’Europa osservata dallo “spazio
esterno coloniale", Said, 2002).
Da più parti si è parlato di
vere e proprie conquiste culturali, veicolate con un vocabolario
univoco: «invenzione»,
«costruzione», «immaginazione» ecc., che esprime dubbi sull’obiettività della
conoscenza. I materiali storici, lungi dall’offrire descrizioni oggettive del
passato, vi proiettano i valori del presente. Risulta al contrario convincente
la scoperta dell’opacità posseduta dalle fonti storiche (Ginzburg, 2000),
aprendo la riflessione intellettuale verso un nuovo e problematico orizzonte.
In questo contesto anche il
concetto di tradizione si è dimostrato non immune dai cambiamenti. L’insieme
delle conoscenze e delle competenze che di volta in volta viene tramandato alla
generazione successiva – si è sostenuto – cambia necessariamente nel corso
della sua trasmissione e il messaggio originario, una volta lanciato e messo in
circolo, in tanto raccoglie l’attenzione di una variegata moltitudine di
soggetti in quanto conserva molteplici aspetti. Gli interpreti ne coglieranno e
ne valorizzeranno l’uno o l’altro a seconda degli interessi coltivati o delle
situazioni in cui versano (Hobsbawm-Ranger, 2002).
Ne è discesa la
consapevolezza del fatto che ogni società ha un suo passato, ma non tutte lo
hanno valorizzato allo stesso modo né si sono servite delle stesse procedure
per richiamarlo alla memoria. Il tipo di approccio è variato nel tempo a
seconda dell’atteggiamento che una struttura sociale ha deciso di assumere nei
confronti di determinati fattori come il potere, la religione, il crimine, ecc
(Bobbio, 1997). Il problema, poi, si è complicato ulteriormente nel momento in
cui la storiografia contemporanea si è interrogata sulla validità scientifica
degli approcci scelti.
Attualmente si sta assistendo
ad una sorta di esplosione, produttiva di una pluralità di tendenze. Come punto
obbligato di riferimento, nella prospettiva della nostra ricerca, si segnala la
pubblicazione, in sette volumi, curata da Nora (Les lieux de mémoire,
1984-1993) e dedicata allo studio della memoria nazionale francese nonché dei
mezzi circa la sua conservazione e modificazione. Dopo di essa sono state
pubblicate in tutta Europa opere simili (in Italia Isnenghi, 1997), incentivate
da un crescente interesse manifestato dal pubblico per le memorie storiche. Un
segnale, questo, che si è voluto ricollegare e contrapporre alla tumultuosa
accelerazione delle trasformazioni socioculturali che, strappando con forza il
presente dal passato, producono “problemi identitari” non lievi (Geertz, 1998).
L’attuale crescita di interesse per l’Olocausto e per la seconda guerra
mondiale, ad esempio, si verifica nel momento in cui questi eventi traumatici
sono sul punto di uscire dal novero delle memorie vissute.
Ad ogni modo la storia della
memoria, oggi in piena fioritura, si è imposta come valido strumento esplicativo
dell’importanza che assumono schemi e stereotipi (Mazzacane, 1997). Risulta,
infatti, acquisita l’idea secondo cui gli eventi perdono qualcosa della loro
specificità nel momento in cui sprofondano nel passato; vengono cioè
rielaborati, finendo col rassomigliare proprio agli stereotipi e agli schemi
tipici di una determinata cultura (Douglas, 2003).
Passando dal piano della
teoria a quello della pratica, va evidenziato che all’interno dei singoli Stati
non sono mancate verifiche giurisprudenziali (ordinarie, amministrative e
costituzionali) in grado di misurare l’“efficacia della memoria” in ordine alla
propria storia totalitaria o coloniale (Fronza, 2004). Tuttavia non va
trascurata la “sperimentazione” compiuta pure in campo internazionale, dove la
discussione si è spesso sovrapposta alla tematica dei diritti umani, provocando
conseguenze significative anche negli ordinamenti interni (Flores, 2005).
Basti qui ricordare che, dopo
le accuse rivolte ai tribunali di Norimberga e di Tokyo (visti quali simboli negativi
di una “giustizia dei vincitori”), neppure i tribunali per l’ex Jugoslavia ed
il Ruanda – e più in generale il processo che ha portato alla costituzione
della Corte penale internazionale – sono stati risparmiati da critiche. I
rilievi più frequenti hanno riguardato la lentezza dei procedimenti, la
difficoltà di compiere gli arresti previsti senza la collaborazione degli
Stati, le procedure ipergarantiste che riducono la certezza di poter giungere
ad un verdetto di colpevolezza e – per quel che ci riguarda – gli effetti
negativi che i procedimenti giudiziari possono avere sui processi di
pacificazione e di riconciliazione necessari in situazioni di post-conflitto
(Cassese, 2005). Proprio la difficoltà incontrata dal diritto nel rispondere ai
massacri e alle violazioni gravi dei diritti umani con strumenti dal forte
valore educativo, costruiti attorno a valori condivisi, ha suggerito
l’opportunità di approntare nuovi tipi di istituzioni capaci di accompagnare,
integrare o sostituire i più tradizionali meccanismi di attuazione della
giustizia. Le cosiddette Commissioni di verità sono il principale frutto di
questa ricerca. Emblematico il caso della Truth and Reconciliation Commission
(Trc) prevista per il Sud Africa che, secondo l’opinione più accreditata, è
riuscita a creare una sorta di circolo virtuoso in cui paura ed espiazione,
rimorso e pentimento, minaccia e ricompensa nonché storia, memoria e diritto
hanno finito per intrecciarsi e rafforzarsi reciprocamente nel tentativo di
giungere al massimo grado di verità possibile (Lollini, 2005). Da noi, un
esempio paragonabile in parte a quello appena indicato, è stato rinvenuto nel
lavoro svolto dalla “Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno
caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini
ebrei”.
Queste tendenze ed esperienze
rappresentano un filtro con cui guardare alle ferite della storia; permettono
anche di scorgere aspetti lasciati finora in ombra, che verranno affrontati
secondo gli interrogativi formulati nella “descrizione del progetto di
ricerca”.
Descrizione del
programma e dei compiti dell'Unità di Ricerca
Sul piano teorico, scaturiscono dagli
studi sopra indicati le seguenti questioni: Come vengono trasmessi e modellati
i ricordi? Quanto incidono le deformazioni e le rielaborazioni culturali sulla
memoria storica? In che modo si dipanano – all’interno di una cultura – i
conflitti di memorie? Ovvero come si conciliano tra loro memorie diverse; ad
esempio, quelle dominanti e quelle subalterne? In definitiva, quali sono gli
itinerari percorribili per la costruzione di una memoria condivisa e quali,
invece, quelli da evitare per non incorrere nell’amnesia sociale e culturale?
Anche sul piano pratico gli
interrogativi proponibili sono di eguale portata: Fino a che punto i processi
costruttivi di una memoria storica possono incidere sulle decisioni politiche e
giuridiche? Quale equilibrio è possibile trovare tra verità e giustizia? Quale,
inoltre, l’accordo praticabile tra verità e riconciliazione? Ancora: come si
può arrivare ad una storia condivisa in contesti caratterizzati da diversità
etniche, razziali e culturali? E, in ultimo, in che modo si può validamente
misurare una riconciliazione, ovvero il grado di solidarietà, di valori
condivisi, di trasformazione morale e di impegno a superare il passato,
prevenendone un futuro possibile ritorno?
E’ evidente che ripercorrere
i “processi di riconciliazione” con un atteggiamento attento alla storia, e
quindi alla comprensione più che al giudizio, può agevolare il conseguimento di
importanti obiettivi:
1) chiarire le opposizioni,
le contraddizioni, le aporie che si riscontrano all’interno della teoria e
della pratica dei diritti;
2) evitare di ridurre la
complessità delle situazioni ad una pura e semplice presa di posizione politica
o ideologica;
3) aiutare il diritto
positivo a ricucire lo strappo sociale, culturale e politico che ogni grave
violazione della giustizia introduce in una comunità.
Così la ricerca, perseguendo
gli obiettivi indicati, sarà articolata nel modo seguente:
A) Teoria e metodo
Innumerevoli studi recenti,
dalle neuroscienze alla storia della cultura, hanno illustrato il ruolo della
memoria in qualsiasi processo intellettivo, individuale o collettivo. Nella
storiografia degli ultimi anni essa è divenuta il concetto centrale attorno al
quale si organizzano gli studi storici, sostituendo altre nozioni un tempo
cruciali – razza, classe, genere – tanto da far registrare un vero e proprio
“boom” delle ricerche (J. Winter, 2002). Il terreno si è dilatato dal campo
delle idee fino a vasti processi di analisi degli spazi pubblici e del loro
corredo di simboli, scomponendo pezzo per pezzo l’”invenzione della
tradizione”, i monumenti, le parate, le celebrazioni, le cerimonie
commemorative. Nell’ambito della storiografia la lista degli incroci possibili
riguardanti la memoria è molto lunga (J. Le Goff, 1979.). Si pensi
semplicemente alle relazioni tra memoria e mito, tra memoria e tempo o tra
memoria e documento (P. Rossi, 1991).
Tuttavia fra i giuristi e gli
storici del diritto il tema non ha riscosso grande attenzione, ma l’interesse
non è infondato. Sarebbe necessario analizzare, ad esempio, la relazione tra
memoria e rito; o tra memoria e consuetudine – questione di grande rilievo
concettuale – o tra memoria e norma. Dal punto di vista teorico, dunque, la
ricerca sarà indirizzata verso un’antropologia della memoria nell’esperienza
giuridica occidentale, esaminando due strutture essenziali, che con una forte
schematizzazione si possono indicare come la nozione di memoria dell’età
intermedia e quella dell’età moderna.
Ciò permetterà di avviare il
discorso metodologico, in quanto la progressiva sovrapposizione tra memoria e
storia sembra aver fatto perdere di vista l’autentico significato di
quest’ultima, originariamente legato al campo dell’esperienza del “vissuto”
intesa come categoria carica di soggettività (S. Luzzatto, 2004).
Tuttavia, assai recente è
l’accusa mossa agli storici circa la loro scarsa propensione all’utilizzo dei
nuovi canali di comunicazione, segnalati tra i più profondi cambiamenti
dell’ultimo ventennio. Ne è disceso un acceso dibattito che ha progressivamente
trasformato problemi di natura accademica in questioni etiche e valoriali.
Basti sottolineare che la riflessione sulla perdita del senso del passato è
stata sempre più interpretata come una riflessione sul mestiere dello storico
(S. Pivato, 2007).
L’uso pubblico della storia,
insomma, rappresenta una categoria che si è enormemente dilatata rispetto alla
originaria definizione: se fino a qualche tempo fa erano gli storici ad
informare le opinioni comuni sul nostro passato, oggi sono strumenti di altro
tipo ad improntare giudizi ed opinioni correnti, trasformando
significativamente quella che un tempo era una funzione primaria della storia:
la sua tensione educativa e civile (N. Galerano, 1995). Pertanto, su questo
versante, la ricerca dell’unità napoletana intenderà promuovere una
ricognizione metodologica intorno ai significati plurimi che la “storia” è
andata assumendo nei diversi contesti disciplinari, concentrando l’attenzione
in particolar modo su un tema centrale della riflessione giuridica: la
relazione tra storia, verità e giustizia.
B) “Memoria” del giurista e
“memoria collettiva”: la reintegrazione degli ebrei nell’Italia postfascista
“È ben vero che la campagna
razziale non fu mai sentita in Italia, dove non è mai esistito un «problema
ebraico», e dove gli israeliti sono sempre stati considerati dalla popolazione
e dal comune sentimento – che fa onore al nostro popolo – alla pari di tutti
gli altri cittadini”..
Con questa considerazione,
nel 1949, il giudice Sofo Borghese concludeva una propria nota ad una sentenza
emessa dal Tribunale di Milano in tema di reintegrazione degli ebrei nei
diritti patrimoniali. Le parole del magistrato sono fortemente indicative di
come, nella ricostruzione e rielaborazione della recente storia degli ebrei
durante il regime fascista, vicende giuridiche e costruzione della memoria
collettiva si intrecciassero.
Recenti contributi
storiografici, relativi alla ricostruzione delle vicende degli ebrei
nell'Italia post-fascista, hanno messo in luce la forte tendenza dei governi
del decennio successivo alla caduta del regime, a rivendicare una sorta di
"monopolio della memoria" degli anni della persecuzione razziale.
L’obiettivo appariva verosimilmente quello di riabilitare la nazione italiana
sul piano internazionale e di costruire una memoria omogenea e pacificata, tale
da poter essere condivisa anche da coloro che erano stati direttamente
assoggettati alle disposizioni antiebraiche del 1938. La selezione degli eventi
era tesa a focalizzare l'attenzione sul periodo successivo all'occupazione
tedesca, lasciando quasi nell'ombra gli anni compresi tra il '38 ed il '43. La
memoria della legislazione razziale si andò così strutturando attraverso
immagini stereotipate: quella dell'italiano magnanimo e, per naturale
inclinazione, ostile ad ogni forma di razzismo e quella speculare del tedesco
incivile che aveva imposto all'Italia l'adozione della normativa, sul modello
nazionalsocialista. Tali immagini si consolidarono in un vero e proprio
paradigma interpretativo, largamente utilizzato, fino alle soglie degli anni
'80, tanto dalla storiografia politica quanto dalla memorialistica ebraica
(Schwarz, 2000; Pavan, 2004).
A livello normativo, il
rapporto con la legislazione razziale del ’38 si articolò su due livelli
distinti ma complementari: da un lato, con il R.D.L. del 20 gennaio del 1944,
la dicotomia ebreo/ariano, che era stata introdotta dall'art. 8 del decreto recante
"Disposizioni per la difesa della razza italiana", fu cancellata
dall'ordinamento giuridico e consegnata all'oblio. I "cittadini italiani
di razza ebraica", dichiarati eguali in diritti e doveri ai connazionali
"ariani", venivano reintegrati "nel pieno godimento dei diritti
civili e politici". D’altro canto, i decreti di attuazione, finalizzati a
dar concretezza alle restituzioni, presupponevano un necessario ma tacito
riferimento a vecchie categorie ed istituti che resistevano, dunque, nello strumentario
di coloro che a quelle disposizioni erano chiamati a dar attuazione e ne
perpetuavano il ricordo.
In quale maniera, il giurista
è stato coinvolto ed ha preso parte al processo di costruzione di una “memoria
collettiva”? I tempi e i modi della memoria del giurista coincidono con quelli
del legislatore, dello storico e dei singoli protagonisti delle vicende
italiane del 1938?
In questa sede, ci si propone
di cercare una plausibile risposta a tali interrogativi, con l’obiettivo di far
luce sul complesso rapporto che si instaurò tra memoria del giurista e memoria
collettiva. L’attenzione verrà concentrata, in modo particolare, sul discorso
processuale. L’attività processuale, infatti, può essere pensata come un
particolare meccanismo di “rimemorazione”, al quale presiedono regole rigide e
predeterminate; all’interno di esso, si verifica necessariamente una selezione
degli avvenimenti che devono essere “ricordati” ed inseristi nella costruzione
del discorso processuale. Attraverso lo studio e l’analisi delle sentenze e
delle argomentazioni addotte dalle Corti italiane che, dopo il 1944, si
trovarono impegnate nei processi di reintegrazione “cittadini colpiti dalle
leggi razziali” nei propri diritti, si cercherà di comprendere come ed in quale
misura le “storie” ricostruite nel corso dei processi di reintegrazione abbiano
risentito delle rielaborazioni operate dalla storiografia contemporanea e di
valutare, al contempo, quale sia stato il contributo fornito dagli operatori
del diritto al complessivo processo di rielaborazione delle vicende vissute
dagli ebrei italiani durante il periodo fascista.