Pillole sul referendum costituzionale
Il contenuto della riforma costituzionale Boschi è coerente ed omogeneo?
No. La
riforma Boschi ha un contenuto disomogeneo, in quanto modifica in più parti,
diverse tra loro, la Costituzione vigente. Non può pertanto essere considerata
una “legge di revisione” come previsto dall’art. 138 della Costituzione,
secondo il quale il quesito referendario sottoposto all’elettore dovrebbe
essere unico ed omogeneo. Quindi essa vincolerà la libertà di voto degli
elettori, che al referendum potranno esprimere solo un Sì o solo un No
all’intero blocco di modifiche. |
Quali sono i fattori di criticità della riforma derivanti dal suo iter parlamentare?
La riforma Boschi è stata approvata dalla Camera e dal Senato nonostante la Corte costituzionale, con la sentenza n. 1 del 2014, avesse dichiarato incostituzionale la legge elettorale c.d. Porcellum, sulla cui base il Parlamento era stato eletto. Per di più, la riforma consegue da un’iniziativa governativa e non da un’iniziativa parlamentare – come avrebbe dovuto essere – con il rischio, puntualmente avveratosi, di condizionarne l’approvazione alle scelte di indirizzo politico del governo. Infine la riforma Boschi, nell’attribuire ai consigli regionali, e non ai cittadini, il diritto di eleggere il Senato, viola la sovranità popolare, di cui «la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto (…) costituisce il principale strumento di manifestazione», come affermato dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 1 del 2014. |
Abbiamo visto che il nuovo senato non verrebbe eletto direttamente dai cittadini. Ma i sostenitori della riforma affermano che si tratterebbe di una elezione “indiretta”. Non hanno ragione?
No.
Si ha elezione indiretta in senso proprio solo quando a tal fine siano previsti
dei “grandi elettori”, come accade in
Francia dove il popolo elegge 150 mila “grandi elettori” che a loro
volta eleggeranno 349 senatori.
Affermare che il popolo italiano eleggerebbe indirettamente il Senato perché i
consigli regionali, eletti dal popolo,
eleggerebbero a loro volta i senatori, è come dire che il popolo italiano
elegge il Presidente della Repubblica perché il Presidente viene eletto da
Camera e Senato, che sono eletti dal popolo. |
Quali perplessità suscita la riforma, a proposito del ruolo dei membri del nuovo Senato?
La riforma prevede che i senatori esercitino contemporaneamente anche le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, senza considerare l’importanza e l’onerosità delle funzioni senatoriali (funzione legislativa ordinaria e costituzionale; raccordo tra lo Stato, le Regioni e i comuni, con l’Unione Europea; valutazione delle politiche pubbliche e dell’attività delle pubbliche amministrazioni; verifica dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea sui territori, e altro). Questa è la differenza, sostanziale, rispetto al caso (talvolta preso ad esempio) del senato statunitense. E’ vero che negli Stati Uniti il senato è composto da 100 senatori, esattamente come prevedrebbe la riforma; tuttavia, negli Stati Uniti ciascun senatore lavora a tempo pieno e gode della collaborazione di uno staff di circa 34 persone, tra consulenti e impiegati. Per contro i senatori italiani, dovendo svolgere anche le funzioni di consigliere regionale o sindaco, non avrebbero nemmeno il tempo necessario per assolvere a tutte le funzioni connesse alle loro cariche. |
Almeno questa riforma fa risparmiare sui costi della politica!
E’ vero, naturalmente, poiché si riduce il numero dei senatori (e perchè
non anche dei deputati?). Ma i benefici dichiarati dal governo sono
oggetto di documentate obiezioni che ne riducono drasticamente il
valore. Chi vuole approfondire in dettaglio può leggere qui e confrontare le due versioni: http://blog.openpolis.it/…/riforma-costituzionale-guer…/9020 In particolare la maggior parte del risparmio dichiarato dipende dall’abolizione delle province (che è una delle poche cose condivisibili della riforma), per le quali però la gratuità degli incarichi istituzionali è già in vigore a seguito della legge Delrio del 7 aprile 2014: il risparmio quindi è già stato conseguito, indipendentemente dalla riforma nel suo complesso. |
La riforma, superando finalmente il bicameralismo perfetto, elimina la fonte di continui e gravi ritardi?
I
reiterati passaggi tra le due camere sono in genere sintomo di
difficoltà politiche nella maggioranza, che – se ci fossero – si
manifesterebbero anche con una sola camera decidente. Nei fatti le
statistiche parlamentari – disponibili online sul sito del senato – ci
dicono che nella legislatura 2008-2013 le leggi di iniziativa del
governo, che assorbono in massima parte la produzione legislativa, sono
arrivate alla approvazione definitiva mediamente in 116 giorni.
Addirittura, per le leggi di conversione dei decreti legge sono bastati
38 giorni, che scendono a 26 per la conversione dei decreti collegati
alla manovra finanziaria. Il
bicameralismo differenziato semplifica solo teoricamente i processi
decisionali, in realtà si moltiplicano i procedimenti legislativi che
sono stati diversificati con scarsa chiarezza in rapporto all’oggetto
della legislazione (non a caso negli art. 70 e 72 vigenti il
procedimento legislativo è disciplinato con 198 parole, che diventano
870 nella nuova versione). Ne vengono incertezze e potenziali conflitti
procedurali tra le due camere, che potrebbero dover coinvolgere la Corte
costituzionale per risolverli. Infine
la riforma sottodimensiona irrazionalmente il numero dei senatori (100)
rispetto al numero dei deputati (630) e rende praticamente irrilevante
il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune (ad
esempio nell’elezione del Presidente della Repubblica). Insomma
gli obiettivi di semplificazione e riduzione costi sono stati
perseguiti in modo inefficiente e spesso di dubbia legittimità. |
Perché è così grave l’effetto combinato della riforma e della nuova legge elettorale (“Italicum”)?
L’Italicum ripropone gli stessi errori della precedente legge (“Porcellum”), già dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale (che ora dovrà pronunciarsi anche sull’Italicum stesso): premio di maggioranza abnorme e candidati imposti dai partiti. Il
risultato è che la Camera, unica in base alla riforma a poter decidere la
“fiducia” al governo, è di fatto in mano al premier che può imporre alla sua
maggioranza qualsiasi scelta. |
E’ vero che vengono rafforzati gli istituti di democrazia diretta, come l’iniziativa legislativa popolare e i referendum?
Falso. Le firme richieste per la presentazione di una proposta di legge sono triplicate, da 50.000 a 150.000. Le garanzie sono rinviate al regolamento, e la maggioranza parlamentare rimane libera di rigettare o modificare la proposta. In altri ordinamenti, la proposta può andare all’approvazione per via referendaria, quanto meno nel caso di modifica o rigetto nell’assemblea legislativa. Per i referendum abrogativi l’abbassamento del quorum di validità, fissato alla maggioranza dei votanti nelle ultime elezioni per la Camera dei deputati, avviene solo nel caso che sia stato richiesto con ben 800.000 firme, tetto quasi impossibile da raggiungere in un periodo in cui i corpi intermedi – partiti, sindacati – sono indeboliti o sostanzialmente dissolti; inoltre i tempi concessi per la raccolta firme sono troppo ridotti. I referendum propositivi e di indirizzo sono solo menzionati a futura memoria nella legge Renzi-Boschi, che ne rinvia la disciplina a una successiva legge costituzionale. Tutto rimane da fare. Cosa impediva di introdurre fin da ora una disciplina compiuta? Un chiaro intento di non provvedere. |
Quale impatto ha la riforma sul rapporto Stato-Regioni?
Si rafforza lo Stato riportando ad esso potestà
legislative di cruciale importanza e riducendo lo spazio costituzionalmente
riconosciuto alle autonomie.
La riforma Boschi attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato oltre 50 materie mentre attribuisce alla potestà legislativa esclusiva delle Regioni soltanto 15 materie di contenuto prevalentemente organizzativo. La soppressione della “potestà concorrente” per semplificare il rapporto Stato-Regioni è ingannevole, perché si crea una nuova categoria di “disposizioni generali e comuni” che è difficile distinguere dalle leggi “cornice” attuali. E c’è anche un richiamo a “disposizioni di principio”. A conferma della svolta centralista, la riforma introduce una “clausola di supremazia statale” grazie alla quale la Camera dei deputati, con una legge, e il Governo, con un decreto legge, potrebbero, senza alcun limite, intervenire in qualsiasi materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale». Questo è molto pericoloso quando si parla di ambiente e gestione del territorio: imporre, ad esempio, la costruzione di inceneritori in numero e ubicazione a discrezione del governo diventa del tutto normale. Pur pretendendo di chiarire e semplificare le rispettive competenze, la riforma dimentica di attribuire (a chi? allo Stato o alle Regioni?) materie importanti quali la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’artigianato, l’attività mineraria, le cave, la caccia e la pesca; di conseguenza non si risolve il problema dell’eccessivo contenzioso costituzionale. |
Ma insomma, c’è qualcosa di buono in questa riforma?
Eliminare l'esistenza delle province dal testo della Costituzione è un momento importante di semplificazione istituzionale; è tuttavia un elemento marginale nell’impianto della riforma Boschi, solo il completamento formale di una decisione già da tempo trasformata in legge e avviata. Anche la soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) è positiva, dal momento che il CNEL non esercita alcuna essenziale funzione politica o istituzionale. In entrambi i casi la soppressione non può certo bilanciare la valutazione negativa di tutto il resto, in una modifica della Costituzione per altro verso ampia e stravolgente. Bastava una leggina costituzionale mirata, che non avrebbe dato luogo a polemiche. |